Il Meeting di Primavera, una riunione di famiglia
Come ogni casata che si rispetti, la famiglia campanacciana si è ritrovata il 25 maggio nell’incontro annuale, divenuto ormai tradizione, presso l’Agriturismo Campanacci in quel di Faenza. L’incontro tra campanacciani della prima ora e delle generazioni successive è un’esperienza di unità di Scuola tra passato, presente e futuro, di vicinanza, condivisione e comunità di intenti tra i membri per ricordare e trasmettere ai giovani gli insegnamenti ricevuti ed i valori che li hanno guidati nel loro cammino professionale ed umano.
Come unico esempio in Italia, la Scuola - oltre a mantenere intatta la coesione e l’amicizia tra i suoi componenti, il che è già l’ eccezione più significativa - esprime all’esterno i talenti artistici che contraddistinguono una notevole quota di Campanacciani e fa conoscere i contributi da questi prodotti, approfondendo la reciproca conoscenza e rinsaldando i vicendevoli legami. Così, dopo la bella manifestazione su I Campanacciani nelle Arti dell’anno passato, il meeting di quest’anno si è rivolto a I Campanacciani nelle Lettere.
Il risultato è andato oltre le aspettative, i contributi offerti hanno interessato ed attratto l’uditorio cancellando la nozione del tempo. Una sintesi degli interventi verrà pubblicata in sequenza su questo sito. Il meeting si è aperto con il saluto del Presidente Sante Tura e la relazione di Ilaria Campanacci Magnani che ha ricordato, con la proiezione in sottofondo di foto e di testimonanze, le doti di scrittore di Mario Campanacci, grande amante della letteratura, della storia, dell’arte, della cultura in toto, del quale già si apprezzarono i dipinti nell’edizione passata.
Sede del meeting è stato anche quest'anno l’agriturismo Campanacci, luogo di delizie già in precedenza descritto, del quale non si sa se ammirare maggiormente l'amichevole ospitalità o l'eleganza degli ambienti ricchi di mobili ed oggetti antichi, come raramente si vede in locali di questo tipo, o il menu gustoso il cui sapore casalingo induce a sentirsi "in famiglia". (M.M.)
Ricordo di Mario Campanacci scrittore
Ilaria Campanacci Magnani
È il ventesimo della prematura scomparsa di mio fratello Mario Campanacci.
Voglio qui ricordarlo come cultore di letteratura e scrittore di pagine di narrativa e di poesia.
Lui stesso confessava che la passione per la medicina era stata subalterna e secondaria in ordine di tempo alla passione per la letteratura e alcuni di voi gli hanno sentito dire che, in realtà, la sua vera vocazione era diventare uno scrittore. Ma era poi arrivato a eccellere nella medicina come scienziato, come chirurgo e come didatta, come sanno tutti coloro che lo hanno conosciuto o che soltanto ne hanno sentito parlare. Un caso piuttosto unico per chi viene sviato da un’intensa passione giovanile verso una diversa scelta dettata dalla razionalità e dalla suggestiva presenza del padre.
Aveva il dono di parlare bene e di scrivere meglio. Aveva un fraseggiare ricco e preciso, mai ampolloso, ma anzi venato di una ironia leggera, sempre calibrata con la circostanza e con l’uditorio. Era un grande conoscitore della letteratura nostra, che aveva avvicinato e studiato con passione negli anni del Liceo Classico Romagnosi a Parma, il liceo dove allora insegnava il poeta Attilio Bertolucci, e continuava a coltivarla per puro piacere.
Prediligeva Petrarca e Dante e poi, fra tutti i poeti, Leopardi, Pascoli e, fra i Crepuscolari, Guido Gozzano. Mentre il mondo di D’Annunzio era estraneo alla sua sensibilità. Recitava ai suoi allievi terzine della Commedia di Dante o versi della grande tradizione e pretendeva scherzosamente che ne riconoscessero l’autore e l’opera di provenienza.
Dico subito che non mi soffermerò sulle pagine che Mario dedicò all’Istituto Rizzoli e alle figure dei suoi padri fondatori o alla Clinica Mayo o all’etica del medico o alla salute e malattia di grandi personaggi della letteratura come Giacomo Leopardi. E neppure indugerò sulle belle pagine di memorie famigliari dedicate in particolare a suo padre. Ma su scritti che rivelano di lui gli aspetti più intimi e personali.
In un appunto scrisse di sé:
- Bambino, sognavo di essere re delle fiabe (far tutti ricchi e felici).
- Ragazzo, sognavo di essere nelle foreste della Malesia con Sandokan o a cavallo verso Parigi con D’Artagnan …
In effetti, fra gli 11 e i 13 anni scrisse un romanzo di cappa e spada e lo corredò di illustrazioni di sua mano. Eppure Mario era un ragazzino vivacissimo di 12 anni che passava solo parte del suo tempo sui libri. Si era in campagna, all’epoca dello sfollamento, e Mario scorrazzava in bici sugli stradelli o sugli argini di campagna, o nella stalla osservava curioso la mungitura o sull’aia la sera suonava la fisarmonica con i contadini.
Ma, all’epoca, non c’era la televisione! E la stesura del romanzo presupponeva che un ragazzino di 11 anni avesse letto e riletto I tre moschettieri e forse Vent’anni dopo.
Sono nel clima di Dumas il nome del protagonista, Gofredo conte di Polignac, e quello del cattivo di turno, il marchese de la Rivoire, l’ambientazione a Parigi durante il regno di Luigi XIII e il milieu, che è quello dei moschettieri del re.
Quanto alla narrazione, può bastare l’incipit del romanzo con quella sonora esclamazione del protagonista: “Oste, per satanasso, un altro bicchiere di bordeaux!” per rendersi conto che, per inesperto che fosse, lo scrittore in erba aveva la capacità di entrare subito nell’azione (per dirla con gli antichi in medias res) e di disegnare in una mezza pagina una situazione e dei personaggi. Che poi, fatte salve le dovute differenze, è l’arte dei veri narratori.
In un altro appunto scrisse di sé:
- “Giovane, dedito agli studi classici, avrei dato almeno un anno di vita (allora mi sembrava tanto, ora nulla) per vivere un giorno solo nelle strade della Firenze del ‘300 quando vi camminava Dante […]”
Facciamo allora un salto nel tempo e veniamo alle poesie che Mario compose fra i 15 e i 24 anni. Le prime rime, in ordine di tempo, sono più direttamente ispirate a modelli letterari: sono sonetti di stampo petrarchesco, con qualche eco del Tasso. Poi l’ideazione, e insieme la forma, divengono più originali e si arriva all’endecasillabo sciolto e al verso libero. È tutto un mondo di ideali, di fuggevoli presenze femminili, di stati d’animo, di mutevoli impressioni da paesaggi primaverili o da esterni di viuzze cittadine. Direi che si vede il pittore nelle poesie di Mario, come si vede il poeta nei suoi dipinti.
Delle numerose poesie scritte da Mario, sono ben 72, ve ne leggerò una. Chiaramente la scelta è personale.
È del 1955, quando Mario aveva 23 anni, ed è dedicata a una ragazzina con una gamba offesa, forse intravista in un banco di un’aula universitaria:
Mentre il vociare intorno – lutulento fermenta
su, su in un banco incontro – il tuo visetto mesto
grazioso di fanciulla e mi torna alla mente
come la prima volta esso mi piacque, più
perché tacente;
e poi mi vergognai – di quella prima occhiata,
al vederti sciancata.
Vergine triste, siedi – e nessuno ti parla;
ma di primo mattino – nella tua stanza scialba
a cosa pensi tu – al lume dell’inverno
(che le altre rallegra) – […]
a cosa pensi tu – al lume della neve,
o bianca verginella in camiciola, bianca
come un fior di biancospino, mentre
ti lavi e ti ravvii – con femminile cura
la tua testina bruna?
Chi ti vede? Sei sola?
Nessuno ti consola?
Ora tace lassù – la tua faccetta buona
e sei carina, sai – così ben pettinata …
Oh, non pensare alla tua gamba malata…
Ora si può solo immaginare con quale coinvolgimento emotivo il giovane chirurgo abbia poi vissuto la realtà professionale.
Aveva una vena ironica sottile e la capacità di cogliere le incongruenze o le stoltezze di certo conformismo contemporaneo. Una conversazione tenuta al Rotary nel 1994, Un attimino. Aiuto! Arrivano i barbari, è una satira spiritosa sulla decadenza odierna nell’uso della lingua italiana. Con il prevalere, nell’Italia di quegli anni, di “parole preconfezionate, insipide, improprie”. Un esempio: “Un insegnante (è storia vera) scrive nel registro di classe che la gita scolastica non si era potuta fare “perché abbiamo avuto dei problemi a livello meteorologico”. Mentre bastava dire: “perché pioveva”. O, peggio, con l’abuso di sdolcinature, come il famigerato “attimino”. Il cameriere ti dice al ristorante: “Dottore, può spostare un attimino la sedia?” Oltretutto, attimo è una minima porzione di tempo, non di spazio. O, peggio ancora, con l’imperversare nel linguaggio del termine improprio, o decisamente volgare. Ad esempio, “la rabbia” che dilaga nelle cronache televisive: la rabbia dei cittadini, delle casalinghe, dei vigili urbani, o dei coltivatori diretti […] “La mia nonna, la quale, come la nonna del Carducci, usava una purissima favella toscana, insegnava sempre a noi bambini che la rabbia è soltanto degli animali. Della stessa opinione era Dante, che la attribuisce al leone (“con la testa alta e con rabbiosa fame”), e a Cerbero, bestiaccia infernale. Per l’uomo, invece, c’è l’ira, la collera, lo sdegno, il dolore, l’amarezza, il disappunto […]”.
E, infine, c’è la pagina manoscritta autografa, trovata dalla figlia Laura, I piedi di Gesù, che può essere una proiezione del contatto fisico del medico col corpo del paziente, idealizzato in una dimensione religiosa.
Aveva scritto Mario: “Adulto, non molti anni fa, ancora pensavo a quale fosse il mio più ardente desiderio, per il quale avrei dato di più che un anno di vita. Ed era questo: vivere un giorno in Galilea nel 35 dopo Cristo e vedere lui, Gesù, e la Vergine Maria. Ma non vedere i loro volti. Il mio folle ardire non osava tanto. Un barlume di coscienza mi faceva sentire tutta la mia miseria e assoluta indegnità. Un tale sguardo mi sembrava assolutamente blasfemo.
No, io desideravo di vedere i loro piedi. Nel Vangelo ricorre spesso l’immagine. Gesù cammina sempre, […], in casa del fariseo Maddalena gli bagna i piedi con le lacrime, li profuma col nardo, li asciuga coi suoi capelli, la lavanda dei piedi prima dell’ultima cena, i piedi inchiodati sulla croce.
Immaginavo quei piedi, di Maria e di Gesù, scalzi e con umili sandali, e il mio desiderio era di inginocchiarmi davanti a essi e di baciarli, così impolverati o infangati che fossero.
[…] Pensavo che se avessi potuto baciare quei piedi la mia Fede, sempre malsicura, si sarebbe finalmente consolidata […].
Finalmente, […] ho creduto di capire.
Quel mio desiderio […] poteva essere realizzato, semplicemente, in ogni giorno della vita di oggi.
I piedi di Gesù sono quelli del nostro prossimo e specialmente dei più umili, dei più sfortunati, dei più poveri, dei più piccoli. Sono questi i piedi da baciare con umiltà […]”.
Questo era Mario Campanacci, medico per vocazione e scrittore per passione.