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Narrazione e percezione di una pandemia

Una controversia globale

Sergio Coccheri, Donatella Orlando

 

Introduzione

Nel corso della pandemia da coronavirus SARS-2-COVID19, abbiamo assistito al manifestarsi di una controversia che si può definire “globale”.

Il dibattito riguarda la diversa valutazione della gravità sanitaria, sociale ed economica della malattia da Covid19, che si riflette nella comunicazione al pubblico non medico, e si traduce anche in differenze profonde di accettazione dei comportamenti di prevenzione. Tale valutazione, fortemente discorde, riguarda praticamente tutti i popoli del mondo. Essa rispecchia le loro diversità culturali, etiche, sociali ed economiche, che determinano differenze nel loro sentire ed agire comune. 

Narrazione della pandemia 

La pandemia tuttora in corso è stata generalmente presentata in una forma abbastanza univoca, per quanto tradotta in versioni differenti. Nella comunicazione al pubblico da parte dei comitati di studiosi e dei responsabili di governo, vi sono state infatti differenze, ma è rimasta inalterata una omogeneità di fondo nella descrizione della pandemia. Di fatto, le divisioni scientifiche sono state assai meno profonde di quanto è apparso al pubblico ha notato Martin McKee. Tra i vari componenti di un Comitato, parecchi hanno detto cose che sono apparse diverse e contraddittorie, ma che in realtà rappresentavano soltanto punti di vista distinti, che talora vengono presentati soltanto per non ripetere quanto già detto da altri, purchè si possa evitare di dire “non si sa, non si sa ancora”.

La “narrazione” è stata comunque quella di una malattia altamente contagiosa, che rende pericolosi i più semplici ed elementari contatti interumani; potenzialmente grave anche se di fatto lo è veramente soltanto in una frazione dei casi totali. Ma anche nei casi oligo-sintomatici o asintomatici essa conserva una elevata contagiosità, indipendente dalla gravità clinica dell’infezione. Questa proprietà della malattia è forse la più inquietante, è il “tallone d’Achille della prevenzione”, come ha scritto Monica Gandhi sul NEJM. I focolai di diffusione non sono sempre individuabili, ed esistono individui cosiddetti “superdiffusori” difficilmente identificabili. E’ mancata inoltre la possibilità di un ragionamento “Bayesiano”, secondo il quale anche i più sofisticati algoritmi teorici di diagnosi e di previsione dovrebbero essere supportati dalla conoscenza di esperienze pregresse del tutto assenti in questo caso. La previsione della evoluzione della pandemia è impossibile, anche disponendo dei mezzi più sofisticati (Edeling, Nature, 2021).

La ridotta possibilità di comprensione degli eventi in corso e ancor più di previsione di quelli futuri, purtroppo non è mai stata correttamente trasmessa al pubblico, che ha quindi attribuito ad alcune affermazioni contraddittorie un valore assoluto, anziché accettarle come graduali acquisizioni di una conoscenza “in fieri”. 

L’interpretazione clinicasociale ed economica della narrazione è un passaggio intermedio poco considerato, ma decisivo per la comprensione da parte del pubblico dei possibili tipi di decorso e di esito finale, e soprattutto delle scelte di prevenzione e terapia che implicano una ricezione attiva da parte dei cittadini. 

Ci si deve dunque domandare: come è stata “percepita” dal pubblico la variabile interpretazione di una narrazione che, tutto sommato sembrava abbastanza univoca? La percezione è influenzata da due fondamentali fattori: le caratteristiche del linguaggio rivolto al pubblico da un lato, e la reattività individuale talora caratterizzata da atteggiamenti di diffidenza preconcetta, dall’altro.

Ebbene, il linguaggio dei messaggi non è stato certamente immune da critiche. Non è stato infatti trasmesso il concetto che la diversità di approccio e di valutazione dei diversi esperti è inevitabile, essendo in gran parte connaturata alla natura dinamica e mutevole nel tempo delle acquisizioni scientifiche. Infine, nel più recente periodo vaccinale si è assistito a veri e propri errori di comunicazione e ad improvvisi cambiamenti di rotta, influenzati più da aspetti emotivi piuttosto che razionali. Ma nonostante questi errori, la gravità della malattia è stata trasmessa e la maggior parte degli esperti di salute pubblica, e quindi i governi, hanno comunque proposto l’applicazione di misure protettive personali e di gruppo, atte a rallentare e mitigare la diffusione del virus.

Percezione di gravità della malattia

Risulta quindi evidente che, a fronte di una narrazione abbastanza omogenea, sono emerse interpretazioni assai diverse, largamente diffuse attraverso i mezzi di comunicazione oggi disponibili. Le variabili implicate in questo meccanismo sono molteplici: vanno dalla differente formazione e cultura individuale, al personale substrato etico o religioso, al grado di soddisfazione delle proprie aspirazioni o, viceversa, di rivendicazione sociale: l’osservanza delle prescrizioni trasmesse è stata quindi recepita in maniera soggettiva, profondamente differenziata in base a fattori “culturali”, sociali, politici ed economici. Di qui la necessità di usare un linguaggio che eviti le affermazioni e le negazioni estreme, e tenga conto della soggettività propria dei diversi gruppi e delle singole persone. Infatti, molte affermazioni apparentemente equilibrate, hanno evocato nel pubblico giudizi opposti, che vanno da un ragionevole ottimismo fino al più cupo pessimismo fonte di allarme e, talora, di panico. Naturalmente questi atteggiamenti hanno influenzato negativamente l’accettazione dei provvedimenti di protezione e mitigazione del contagio che, in attesa degli effetti della vaccinazione di massa, rappresentavano l’unica risorsa difensiva disponibile. 

Risulta quindi necessario comprendere gli atteggiamenti differenti nei confronti della valutazione di gravità della malattia, e dell’efficacia delle misure protettive.

A questo proposito, possiamo tentare una classificazione dei vari atteggiamenti del pubblico, riconducibili a tre tipi principali:

  1. L’atteggiamento consenziente: che condivide in pieno la valutazione dell’infezione da COVID come malattia grave e potenzialmente letale, e quindi accetta i vari provvedimenti protettivi e preventivi, fino all’isolamento totale di popolazione (lockdown).
  2. L’atteggiamento “riduzionista”: è basato sull’ipotesi che la gravità della malattia sia pesantemente sovrastimata, che quindi non meriterebbe né la definizione di elevata gravità, né le drastiche misure di protezione, che vengono per questo percepite soltanto nella loro negativa componente sociale ed economica.
  3. L’atteggiamento “negazionista”: predica invece il rigetto di gravità della malattia, per cui i provvedimenti protettivi vengono percepiti soltanto come lesivi delle fondamentali libertà costituzionali di uno stato di diritto, e quindi dannosi per i cittadini, per l’economia e per la stessa sopravvivenza della democrazia (!). Una frequente variante dell’atteggiamento negazionista rappresenta infine la pandemia come uno spauracchio creato ad arte dai “poteri forti”, statali o privati, dalle banche, dalle multinazionali, (in particolare farmaceutiche: Big Pharma), poteri che perseguono il fine di sottomettere e annullare la libertà del singolo, quindi del popolo (atteggiamento “cospirazionista”).

Atteggiamento consenziente e valutazione di gravità

Si deve  anzitutto ricordare che in Italia l’indice di letalità (case fatality rate) dei casi accertati è stato all’incirca del 3%, più alto di quello medio calcolato sui 10 Paesi del mondo più gravemente colpiti. Un recente rapporto GIMBE registra per tutto il 2020, un eccesso di mortalità da tutte le cause del 15.6% rispetto agli anni precedenti. In numeri assoluti, considerando il periodo marzo-dicembre 2020, l’eccesso è stato di 108.000 decessi dovuti direttamente (70%) o indirettamente (30%) al COVID (vedi oltre). La stragrande maggioranza delle vittime era costituita, come è noto, da persone anziane. Ricordiamo anche che il carico totale di vittime era, a metà del 2021, di circa 4 milioni di casi.

Quasi tutti gli esperti nel mondo hanno accettato prima o poi, la definizione di “malattia grave” e potenzialmente letale, condividendo l’adozione di protezioni individuali e sociali anche severe. Peraltro è noto che le misure di protezione disposte sono più difficilmente applicabili laddove lo scambio sociale è molto vivace come in Italia. Un quotidiano inglese ha osservato che in Italia vi è una “tremendous social life”: gli scambi interpersonali sono molto vivaci.

Certamente qualcosa non ha funzionato, come dimostra l’eccesso di mortalità in alcune regioni (Lombardia) ma soprattutto il “flop” della applicazione “Immuni”, che avrebbe dovuto assicurare un capillare reperimento di casi anche asintomatici, ed effettuare il tracciamento del contagio e la conseguente applicazione del precetto: “testare, tracciare, proteggere”.  Purtroppo l’adesione al progetto “Immuni” è stata molto più bassa del previsto, risultando quindi inefficace. Evidentemente la comunicazione dell’iniziativa non è stata convincente: molte persone non hanno aderito, per presunti motivi di privacy. 

La posizione “consenziente” nei riguardi della pandemia è comunque stata largamente condivisa dagli esperti nella maggior parte dei Paesi del mondo. Ad esempio citiamo la posizione di un grande esperto italo-americano, Anthony Fauci, Immunologo del National Institutes of Health (NIH) negli Stati Uniti, che ha sempre espresso posizioni strettamente basate su dati scientifici. In una intervista sul British Medical Journal, Fauci esprime la sua fiducia nelle raccomandazioni di protezione, ma riconosce anche che i Servizi Sanitari universali dei Paesi Europei garantiscono maggiore omogeneità ed equità, mancate invece negli USA.

Atteggiamenti di riduzionismo

Non sono tuttavia mancate voci critiche e atteggiamenti “riduzionisti”: in particolare in concomitanza con la seconda ondata (autunno 2020), che ha fatto comprendere come la lotta al Covid implicasse importanti conseguenze economiche, per cui le decisioni non potevano essere soltanto sanitarie, ma anche economiche, e quindi squisitamente politiche.

Si è affermato ad esempio che il COVID è “meno letale di tante malattie infettive e non infettive”. Ma, è facile argomentare che proprio perché in Italia abbiamo già un’alta mortalità di base dovuta alla elevata età media della popolazione ed alle principali malattie croniche, non possiamo accettare ulteriori aumenti. Vero è che esistono “ben altri” insidiosi nemici della salute pubblica, come il cancro, le malattie cardiovascolari, l’ipertensione arteriosa, il diabete, e altre patologie. Ma si tratta in buona parte di patologie per le quali riusciamo a contenere i danni con la prevenzione e la diagnosi precoce. Al contrario, nella malattia da COVID 19 non si è avuto né il tempo né il modo di prevenire e curare. 

Certamente le misure preventive (come il “lockdown”) possono avere conseguenze negative sulla salute psichica e fisica, e i danni economici possono causare depressione ed anche disperazione; e infine esiste anche un danno indiretto, costituito dalla minore disponibilità del sistema sanitario per la prevenzione e la cura delle malattie “classiche”, che genera un minore e meno efficace ricorso alle strutture sanitarie. Ma infine quale misura terapeutica o preventiva non ha effetti collaterali e indesiderati? Domenico Campanacci ci insegnava: diffidate delle terapie che non hanno effetti collaterali, vuol dire che sono “acqua fresca”! 

Una particolare posizione riduzionista è stata quella dell’epidemiologo Joannidis della Stanford University, che ritiene che l’epidemia sia “meno grave di quel che si pensa”, e che “ci comportiamo come un elefante che si getta in un burrone per sfuggire ad un innocuo topo”. Egli sostiene che la “case fatality rate”, è molto bassa e non giustifica misure drastiche e potenzialmente dannose. Ma la valutazione di Joannidis si basa solo su frequenze percentuali, che, come ha suggerito Claudio Borghi, sono fortemente variabili a seconda del denominatore al quale si rapportano. 

Posizioni analoghe di riduzionismo furono sostenute, all’inizio, da vari capi di governo (Vedi Johnson, Trump, Bolsonaro, lo stesso Macron): ma tutti, di fronte al dilagare incontrollato della pandemia hanno dovuto precipitosamente abbandonarle. 

Infine, non siamo in condizioni paragonabili a quelle della peste del 1300, che portò a morte un terzo della popolazione di grandi città o di una intera nazione! E nemmeno siamo fermi al livello scientifico e tecnologico del tempo della Spagnola (1918-1922), quando nel mondo morirono circa 20 milioni di persone. Il significato dei numeri e delle statistiche non è assoluto ma è relativo alle condizioni igieniche, allo sviluppo scientifico e tecnologico dell’epoca, e, come ci insegna un grande matematico italiano (De Finetti), perfino alla soggettività del singolo. Siamo disposti a tollerare in Italia centinaia morti al giorno come durante la “seconda ondata”, e circa 130.000 vittime in un anno, nonostante il progresso esplosivo dell’igiene e della scienza medica nell’ultimo secolo? 

Riduzionismo: la Great Barrington Declaration

Un lampante esempio di riduzionismo liberista è questo documento collaborativo prodotto da un gruppo di scienziati di orientamento epidemiologico e socio-economico, operanti nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America. Il documento prende il nome dalla piccola località del Massachussets ove si tenne nell’ottobre 2020 il Convegno ispiratore. Nella dichiarazione Great Barrington si sostiene una visione alternativa delle strategie di prevenzione e contenimento, e si introduce una diversa valutazione economica della malattia e delle relative misure protettive.

La Carta di Great Barrington parte dall’idea che l’infezione sia in realtà diffusa ad un enorme numero di soggetti quasi tutti asintomatici, per cui ci si doveva anzitutto chiedere se il virus fosse realmente “così mortale come si era supposto”. Si raccomanda quindi una strategia di protezione “mirata” (focused protection), e di isolamento dei soli soggetti vulnerabili (anziani, malati), e si esprime contrarietà alla imposizione collettiva e indiscriminata delle restrizioni della mobilità sociale e lavorativa. Si sentenzia che “ogni cittadino deve conservare la propria libertà di proteggersi o meno dall’infezione”, favorendo così una libera circolazione del virus che, si suppone, avrebbe condotto alla cosiddetta “immunità di gregge”, comunque a prezzo di una assai elevata mortalità delle classi anziane.  Venivano addirittura scoraggiate le indagini diagnostiche nei giovani, perfino se avevano sintomi di infezione COVID. 

Contro questo documento insorsero altri gruppi di scienziati (Gruppo John Snow) che ne sottolinearono anzitutto un errore fondamentale: l’immunità di gregge può essere conseguita solo attraverso la vaccinazione, e non è raggiungibile attraverso la super-diffusione della malattia, che inoltre innalzerebbe fortemente il numero di malati gravi e di morti. Il documento di Barrington fu giustamente giudicato come non umano e non solidale dalla maggior parte degli studiosi Europei.

Riduzionismo e “mortalità gonfiata”

Un altro elemento di critica avanzato dai riduzionisti (e naturalmente anche dai negazionisti), è la supposta “sopravvalutazione” della mortalità da COVID. Sentiamo infatti dire: “la mortalità è stata gonfiata” o addirittura: “la teoria di automezzi militari che a Bergamo portavano via (di nascosto!) i morti… era una sceneggiata”.

In altre parole, si cerca di contestare i numeri della mortalità sostenendo che sarebbero stati “esagerati”, o “gonfiati” ad arte. Si tratta della deformazione di un problema di fondo: la morte è spesso un evento multifattoriale. Nella maggior parte dei casi letali possono esistere fattori concausali: oltre all’età avanzata, anche le malattie pre-esistenti. Tuttavia è certo che le condizioni e le malattie preesistenti potenziano l’effetto letale del COVID, ma è anche certo che a loro volta ne vengono potenziate.

Per comprendere meglio il significato causale o con-causale dei vari fattori patogeni che possono concorrere all’evento “morte”, conviene rifarsi al concetto medico-legale di “causa mortis”. Questa espressione punta ad individuare l’elemento che possiede una “efficienza morbigena specifica” e che non è teoricamente sostituibile, mentre gli altri fattori, teoricamente sostituibili, debbono essere definiti come “concause” piuttosto che “cause”. Inoltre, va chiarito il significato dal termine “pregresso”.  Un infarto, o uno scompenso cardiaco, se in atto o recenti, hanno certamente una azione aggravante sul COVID; ma ben diverso è il significato di un infarto pregresso ma silente da anni, o perfino di un cancro in fase di quiescenza. La presenza di patologie “pregresse”, ma non in atto, non può far attribuire la morte ad esse anziché a una accertata infezione da COVID.

Va infatti valorizzato il fattore insostituibile e specifico, che determina l’evento morte in quel giorno e in quell’ora precisa. Tale fattore specifico e insostituibile è nella fattispecie, l’infezione da COVID 19: anche se essa aggrava un pregresso fattore silente, oppure ne viene aggravata, la “responsabilità” della morte rimane comunque del COVID.

Ciò premesso, come si deve rispondere a coloro che sostengono che la mortalità è gonfiata “per spaventare la gente”, e attribuiscono molti decessi ai fattori di comorbidità sostenendo che i pazienti “sarebbero morti ugualmente” per la malattia pregressa?

Un documento dell’Istituto Superiore di Sanità riporta che le comorbidità più frequenti nei pazienti deceduti per COVID sono: l’ipertensione arteriosa, il diabete, la fibrillazione atriale, lo scompenso cardiaco, la broncopneumopatia cronica con insufficienza respiratoria, l’insufficienza renale, l’obesità e la sindrome metabolica, il cancro in fase attiva.

 I requisiti generali definiti dall’ISS e dall’OMS per definire un caso di COVID come mortale sono i seguenti:

  1. Decesso occorso in un caso confermato come positivo da tampone molecolare.
  2. Presenza di un quadro clinico e strumentale di COVID 19
  3. Assenza di una causa mortis diversa da COVID 19
  4. Assenza di periodi di recupero clinico completo tra la malattia COVID e il decesso.

Questi criteri debbono essere tutti presenti nel soggetto deceduto. 

All’accusa che le cifre di mortalità siano gonfiate si può quindi rispondere che esistono criteri codificati per attribuire o meno l’evento letale all’infezione da COVID, criteri accettati da tutti i Centri Sanitari. A nostro avviso, questi requisiti potrebbero essere ulteriormente migliorati introducendo una chiara differenza tra comorbidità “in atto”, oppure pregresse e quiescenti.  

Risulta quindi chiaro che la maggior parte dei casi mortali riguarda persone in età avanzata, e (anche per questo) più facilmente portatori di patologie; ma non è lecito trasferire a queste ultime la “responsabilità” della morte alla malattia quiescente, anche se attivata dal COVID che rimane l’elemento decisivo dell’evento morte.

E ancora, “non è stato il COVID, sarebbe morto lo stesso…magari dopo qualche giorno (settimana o mese)” dicono i riduzionisti. Ma in questo modo essi contrappongono una morte accertata in un preciso giorno e ora, ad una morte ipotetica, dilazionata in un futuro non definibile. Se l’infezione da COVID avesse anticipato l’esito letale anche solo di un mese o perfino di un giorno sarebbe stata comunque la causa determinante.

Negazionismo e cospirazionismo

Il negazionismo è un atteggiamento mentale di non accettazione di idee e nozioni basate su solidi presupposti razionali. Un atteggiamento oggi particolarmente alimentato dalla sovrabbondante disponibilità dell’informazione, che, se da un lato alimenta le conoscenze, dall’altro può diffondere capillarmente ogni opinione, indipendentemente dalla sua fondatezza razionale o scientifica (si veda l’esempio delle “fake news”). 

La negazione dell’esistenza stessa del virus e della malattia è particolarmente pericolosa per il singolo e per la collettività, perché supporta il rigetto di tutti i provvedimenti protettivi, inclusa la vaccinazione. I negazionisti (circa il 20-25% della popolazione, sia in Italia che nel mondo), diventano spesso “cospirazionisti”, avanzando l’idea che “poteri forti” pubblici o privati abbiano “inventato” l’epidemia come strumento di asservimento del popolo, come già sottolineato in precedenza.

In genere, quando le posizioni di rifiuto e rigetto circolano e attecchiscono, significa che vi sono stati stimoli (palesi o occulti) che hanno determinato la loro formazione. Si deve purtroppo constatare che questi stimoli non sono soltanto le “fake news”. Vi sono infatti politici, politologi, e filosofi di fama consolidata che pubblicano e propagano teorie nichilistiche di questo tipo. Tuttavia finchè rimangono teorie, hanno solo una funzione dialettica: se vengono invece captate da persone che hanno atteggiamenti di rivalsa, animosità e risentimento anti-istituzionale, si trasformano in slogan che danneggiano gravemente la società, in particolare durante una pandemia. In tal modo esse diventano una componente del “clima culturale”, e vengono fatte proprie da una parte del pubblico che spesso non sa nemmeno da chi provengano. Citiamo qui alcune espressioni comparse in pubblicazioni a stampa oppure on-line, di personaggi riconosciuti e per altri versi stimati.

  • L’invenzione di una pandemia.
  • La medicina come religione
  • Stato di dittatura sanitaria
  • Le Autorità vogliono creare un clima di panico
  • Lo stato di eccezione viene usato come paradigma
  • Le misure di protezione sono illiberali ed anticostituzionali!
  • Basta scienza!

E molte altre ancora, ma non insistiamo sulla irresponsabilità di chi le ha coniate.

Il biologo S.B. Carrol ha pubblicato nel 2020 un “manuale dei negazionisti”, elencando e commentando i sei pilastri sui quali si basano le argomentazioni dei negazionisti:

  1. Rifiutare il metodo scientifico
  2. Mettere in dubbio l’integrità personale degli scienziati (scienza corrotta)
  3. Ingigantire le contraddizioni proprie della scienza
  4. Esagerare la gravità dei rischi legati ai provvedimenti di prevenzione
  5. Appellarsi con falsi argomenti alle libertà personali e al rispetto della Costituzione
  6. Rifiutare metodi di prevenzione se contraddicono convinzioni religiose o filosofiche.

Ognuna di queste prese di posizione meriterebbe una discussione a sé che lasciamo all’immaginazione del lettore.

Conclusione

Che fare? Con quali mezzi affrontare il problema del negazionismo? 

Occorre anzitutto trovare un nuovo linguaggio non semplificatorio, e spiegare bene non solo i risultati, ma anche i meccanismi attraverso i quali la Scienza produce i propri risultati. Troppo difficile? Tuttavia vale la pena di provarci!

 

 

 

 

Sergio Coccheri 

già Professore ordinario di Malattie Cardiovascolari dell’Università di Bologna

Presidente Onorario Fondazione Arianna Anticoagulazione

 

Donatella Orlando

Laurea in Giurisprudenza Università di Bologna

già responsabile della Segreteria ANMCO (Associazione Nazionale dei Medici Cardiologi Ospedalieri)