Massimo Laus
Incontrai per la prima volta il Prof. Mario Campanacci il 29 settembre del 1975, portavo con me una lettera di presentazione del Prof. Scaglietti .
Era un momento doloroso della mia vita: mia madre era malata per un carcinoma metastatico della mammella che aveva invaso tutto lo scheletro provocando intensi e continui dolori.
Il Professore, allora Aiuto del Prof. Paltrinieri, mi ricevette nel laboratorio del Centro Tumori, mi guardò severamente attraverso gli occhiali, si compiacque del mio brillante libretto universitario, e mi accettò come allievo della sua Scuola in via di formazione.
Iniziai a frequentare tutti i giorni la Clinica Ortopedica, cercando di capire, di vedere, di ascoltare il Professore. Ebbi modo di confidargli anche la situazione della mamma, ottenendone un’affettuosa comprensione. Con entusiasmo assistetti ai primi interventi, seguii il Professore dappertutto, facendomi piccolo piccolo per non disturbare: in biblioteca, in reparto, in ambulatorio, in laboratorio al microscopio, e scoprii il segreto del Maestro: nulla era lasciato al caso, tutto era studiato con attenzione e metodo, ogni intervento era preparato a tavolino il giorno precedente, sui libri, sull’atlante di Anatomia di Pernkopf.
Al microscopio, in laboratorio, avveniva la sublimazione della diagnosi: la fusione fra anatomia patologica , clinica e radiologia. In poche settimane il Professore mi gratificò della sua simpatia e del suo apprezzamento, che mi ha mantenuto tutta la vita; per parte mia ero così convinto della straordinaria unicità del suo essere medico e docente che non ebbi alcun dubbio: era il mio MAESTRO.
Il 21 ottobre di quell’anno, 3 settimane dopo l’ incontro col Professore, mia madre morì... il dolore più grande della vita. Nel Resto del Carlino comparve la partecipazione del Prof. Campanacci, come Collega e Amico.
Il Maestro, austero scienziato, uomo schivo, riservato, severo nei giudizi professionali partecipava al dolore del giovane allievo appena conosciuto: non l’ ho mai dimenticato.
Il primo lavoro scientifico che gli presentai, mi ritornò approvato, ma con una quantità tale di correzioni, lessicali e soprattutto “tagli”, da lasciarmi tramortito. Applicai allora il Metodo Campanacci: studiai attentamente le correzioni, una per una, cercando di comprenderne le motivazioni; di quelle che non mi erano chiare, timidamente chiesi spiegazioni , ottenendole con un sorriso divertito da questa curiosa esplorazione del giovane allievo. Dal secondo lavoro in poi non ci furono più che sporadiche correzioni e integrazioni: avevo capito.
Il Maestro… al Rizzoli se dicevi il Maestro , tutti sapevano che alludevi al Prof. Campanacci, nonostante la presenza di 3 Direttori Universitari e 4 Primari Ospedalieri. Maestro lo era per tutti, e a tutti i livelli: è facile infatti per un docente parlare della propria materia a braccio, ma è molto più efficace e impegnativo preparare la lezione tarandola sull’uditorio. Così nascevano le Lezioni per gli studenti, quelle per gli specializzandi, le Relazioni per i Congressi, le Lezioni Magistrali: lo stesso argomento preparato col taglio più adatto, perché fosse realmente una Lezione.
Dopo 10 anni di attività Ospedaliera al di fuori del Rizzoli nel 1989 ritornai alla Clinica Ortopedica come Aiuto, per scelta congiunta del Prof. Campanacci e del Prof. Giunti. Diventai Collaboratore del Prof. Campanacci quale Redattore della Rivista La Chirurgia degli Organi di Movimento, e di lì a pochi anni Primario di Ortopedia e Traumatologia al S. Orsola.
La domenica prima della sua scomparsa andai a trovarlo al Rizzoli, dove era ricoverato all’ ultimo piano. La porta era chiusa, gli infermieri in turno non mi conoscevano: lessi sulla porta un cartello “ Si accettano visite solo di chi sta scrivendo un lavoro scientifico serio”. Mi feci annunciare alla Signora Giuliana, che mantenendo il gioco anche in quella circostanza così drammatica mi chiese se stavo scrivendo un lavoro scientifico serio: no, non stavo scrivendo niente, lontano dalla Clinica le responsabilità assistenziali di Primario ospedaliero avevano assorbito completamente il mio tempo…. Il Professore mi ricevette ugualmente: ho passato con lui un’ora di conversazione amabile e leggera, di ricordi, riflessioni, di silenzi, sguardi, emozioni. Poi ci salutammo: non avrei più rivisto il Maestro, ma nel mio cuore , nella mente , nelle azioni è una presenza costante.
Angelo Saracinelli
Ho conosciuto il professor Mario Campanacci nel marzo del 1978, dopo che al Careggi di Firenze avevano prospettato che la mia vita sarebbe stata ormai breve. Avevo 38 anni.
In cerca di salvezza, abbiamo contattato una clinica in Svizzera. Da lì ci è arrivata una semplice indicazione: provare a Bologna, e mettersi nelle mani di un medico che all’epoca era già considerato un luminare: il Professor Mario Campanacci.
Con uno stile che poteva sembrare piuttosto duro, lui pretese subito di parlare direttamente a me, paziente, senza interferenze di terze persone, compresi i familiari più stretti.
Il problema che purtroppo mi aveva colpito era grave e le decisioni dovevano essere nette, nonché consapevoli e condivise. Questo partecipare direttamente con il paziente fu di per sè uno sprone a combattere: eravamo due persone che andavano in guerra per vincere.
Le attenzioni che il professor Campanacci mi dedicò con il tempo e le spiegazioni richieste, soprattutto quando la malattia diede maggiori preoccupazioni, erano quasi una spinta a combattere ancora e di più.
Il Suo lavoro non aveva soste, molto spesso lo vedevo anche la domenica, compresa Pasqua, e mi dicevo: “Sta combattendo più di me. Anziché abbattermi devo recuperare le forze e fargli vedere che quanto sta facendo è molto apprezzato e merita quantomeno riconoscenza.”
Da subito diedi massima fiducia all’approccio scelto dal professore, fiducia rinnovata anche quando, dopo l’intervento, si presentarono conseguenze che non avevano riscontro nella letteratura medica di allora.
Il miglioramento definitivo portò felicità a me, ma a lui, credo, ne portò ancor di più, anche vista la singolarità del caso. Ne andavamo orgogliosi insieme anche negli anni seguenti, quando mi chiamava a Bologna per “mostrare” alle équipes di medici provenienti da ogni dove come mi fossi ripreso.
La durezza che, sbagliando, avevo avvertito in un primo momento non era altro che preoccupazione per quanto mi era capitato e, nel tempo, si era trasformata anche in un profondo legame amicale.
Il ricordo di lui è costante in me e nella mia famiglia.
In questi vent’annici è mancata una persona cara.
Grazie professor Campanacci!
Pensando al Professor Mario Campanacci…
Un ricordo da bambina
Anna, figlia di Angelo Saracinelli
Non avevo ancora 11 anni quando mio padre si ammalò.
Lo ricordo dolorante, mentre si trascinava sulle scale per raggiungere la nostra abitazione, sopra la banca in cui lavorava. Era il mese di dicembre del 1977. Mia madre era incinta di quel fratello che avevo atteso per tanti anni. Lei seguì mio padre e gli stette sempre accanto. Per mesi, solo una telefonata mattutina era ciò che ci potevamo permettere per incontrarci a distanza, loro in ospedale, io a casa della nonna, prima di scuola.
Ricordo il pianto disperato di mia madre in un pomeriggio d’inverno, in cui fece una telefonata in una clinica svizzera, dove sembrava potessero fare qualcosa per mio padre, dopo che al “Careggi” di Firenze non gli avevano lasciato speranze di vita. Da lassù venne l’invito a rimanere in Italia, andando al “Rizzoli” di Bologna, dove operava il già rinomato professor Mario Campanacci.
Così, fu ricoverato a Bologna e nel mese di marzo del 1978, operato dal Professore il venerdì 17.
In realtà, io non ebbi molte occasioni di incontrare il Professore, tuttavia ho scolpito nella memoria un momento particolare.
Ricordo un uomo vestito con un loden verde, accovacciato a vegliare sul liquido rossastro che fuoriusciva dai drenaggi che pendevano dal letto di mio padre. Il suo sguardo pensieroso e preoccupato per un attimo si è rivolto verso di me, incrociando il mio desiderio di comprendere cosa stesse accadendo. Ricordo la voce di mio padre che mi presentava quell’uomo a me sconosciuto invitandomi a salutarlo con trasporto e riverenza. Ricordo la sua risposta biascicata, quasi sfuggente. “Buona Pasqua!” – mi disse, facendomi una piccola carezza sul volto. Poi uscì in fretta dalla stanza.
Io chiesi a mia madre come mai il Professore non avesse il camice e perché fosse venuto a trovare il papà proprio anche il giorno di Pasqua. Lei mi rispose che i medici bravi fanno così, non si dimenticano mai dei propri pazienti.
Non ho più dimenticato l’immagine del suo volto.
Non ho più dimenticato la tenerezza di quello sguardo.
Oggi, dopo 41 anni ormai trascorsi da quel giorno, il mio ricordo del Professore si è costruito grazie alle innumerevoli volte in cui in famiglia si è parlato di lui e lo si è lodato per averci permesso di vivere con nostro padre.