Alberto Pellegrino
L’invidia è uno dei sentimenti più antichi che tormentano l’animo umano, causa un tormento interiore che provoca avversione e risentimento verso gli altri, ma che anche un disagio interiore che impoverisce l’esistenza dell’individuo che la prova. Questo “mostro dagli occhi verdi”, come la definisce Shakespeare, nasce da una avversione che si prova verso un’altra persona per le sue doti intellettuali, per la sua posizione sociale o economica spesso ritenuta immeritata e quindi ritenuto dall’invidioso come un’offesa personale, l’usurpazione di un ruolo egli vorrebbe per se stesso. L’invidia sarà presa in esame sotto il profilo storico e psicologico e, facendo ricorso alla sociologia della letteratura, attraverso alcuni esempi tratti dalla letteratura, dal teatro, della cultura popolare e del fumetto.
Nel mondo delle fiabe l’invidia è presente come ingrediente e “motore” di celebri storie a cominciare da Cenerentola, un racconto popolare probabilmente nato nell'antico Egitto e successivamente narrato in centinaia di versioni in gran parte del mondo. In Occidente la prima versione nota è quella contenuta nella raccolta Cunto de li cunti di Giambattista Basile (1634-36), intitolata La gatta Cenerentola e ambientata nel Regno di Napoli. Nell’Ottocento divengono celebri le versioni dei fratelli Grimm e di Charles Perrault.
La protagonista di questa storia è una bellissima giovane, figlia di un uomo ricco che, dopo la morte della moglie, si risposa con una vedova. La ragazza viene schiavizzata dalla matrigna e dalle due figlie che sono invidiose della sua bellezza, per cui la odiano e la chiamano “Cenerentola”. La matrigna la costringe a vivere in cucina per preparare i pasti, per pulire le pentole e la cenere del camino con il permesso del debole padre succube della nuova moglie e incapace di proteggere sua figlia. La vita di Cenerentola cambia quando giunge la notizia che a corte si terrà un ballo organizzato dal re per consentire al principe erede al trono di scegliere la futura sposa. Le sorellastre e la matrigna hanno intenzione di partecipare al ballo, impedendo a Cenerentola di prendervi parte. Con l'aiuto della sua "fata madrina" la ragazza può indossare un abito meraviglioso e recarsi segretamente al ballo reale su una splendida carrozza con il solo obbligo di rientrare a mezzanotte. Durante la festa, Cenerentola attira l'attenzione del principe e i due ballano tutta la sera, quando i rintocchi dell’orologio le ricordano che deve sparire. Nella fuga perde una scarpa di cristallo che è trovata dal principe, il quale proclama che avrebbe sposato solo la ragazza a cui la scarpetta sarebbe calzata a "pennello". Gli incaricati del principe si recano nelle case del regno e fanno provare la scarpetta a tutte le ragazze in età da marito comprese le due sorellastre che, corrotte dalla madre e accecate dall'invidia verso Cenerentola.
Secondo i fratelli Grimm, che immettono una componente sadica nel racconto, le due ragazze si macchiano di alto tradimento verso la corona, perché si tagliano una parte del piede per farlo entrare dentro la magica scarpetta. Durante la strada verso il castello vengono però smascherate da due colombi bianchi, fedeli amici e servitori di Cenerentola, che avvisano il principe del sangue sulle calze, per cui alla fine sarà Cenerentola a provare la propria identità e a sposare il suo amato principe. Le due sorellastre invidiose e crudeli dovranno subire la tremenda ira della principessa: il giorno delle nozze reali le due giovani zoppicanti per le automutilazioni si fanno avanti per fare le damigelle d'onore con la speranza di conquistare il favore della futura regina, ma non sfuggono alla sua spietata vendetta, perché chiama i due magici colombi per attaccare i loro volti e strappare loro gli occhi, condannandole a condurre una vita da mendicanti cieche come giusta punizione per il loro comportamento diabolico. Si tratta di una variante della legge dantesca del contrappasso: l’invidioso è colui che per tutta la vita ha guardato gli altri in modo malevolo, per cui ora deve vivere al buio senza poter fare del male agli altri.
Secondo Bruno Bettelheim la storia di Cenerentola riflette le angosce e le speranze della rivalità fraterna e racconta la vicenda di un’eroina-paria che riceve angherie e umiliazioni da tre donne invidiose della sua bellezza, costringendola a “vivere in mezzo alla cenere” per indicare la sua condizione di essere inferiore. Cenerentola è quindi la storia dell’invidia e della gelosia fraterna: “L’invidia e la gelosia più intense sono suscitate dalle caratteristiche sessuali che un individuo possiede e di cui l’altro è privo…Quello che era iniziato come assoluta privazione provocata dalla gelosia si risolve in una grande felicità grazie a un amore che comprende le fonti di questa gelosia, le accetta e così facendo le elimina” (Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano, 1983).
Ugualmente legata al tema dell’invidia e dell’odio è Biancaneve, una fiaba scritta da Jacob e Wilhelm Grimm nel 1812 e successivamente rivista nel 1857. In una giornata d'inverno una regina, mentre è intenta a cucire si punge un dito ed esprime il desiderio di avere una figlia con la pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue che l’è appena uscito. Dopo qualche tempo nasce una bambina che ha le caratteristiche fisiche desiderate dalla madre, alla quale i genitori danno il nome di Biancaneve, ma la regina muore poco dopo il parto e il re decide di risposarsi. La seconda moglie del re è una donna bellissima e vanitosa che possiede uno specchio magico, al quale chiede in continuazione chi sia la donna più bella del regno per sentirsi rispondere che è lei. Quando lo specchio le dice che Biancaneve è diventata la più bella, la regina, divorata dall’invidia e dall’odio, incarica un cacciatore di portare la figliastra nel bosco e di ucciderla, riportandole i polmoni e il fegato come prova della sua morte. Il cacciatore non ha però il coraggio di assassinare la fanciulla e uccide al suo posto un cinghiale e porta alla regina le interiora dell’animale, che lei mangia convinta siano quelle della figliastra.
Biancaneve s’imbatte in una piccola casa, nella quale abitano sette nani che lavorano in una vicina miniera. Affamata e stanca, mangia il cibo già preparato e si addormenta in uno dei letti. Al loro ritorno, i nani sono felici di ospitare la dolce Biancaneve che li aiuta nelle faccende domestiche. La vita scorre tranquilla fino a quando la regina scopre che la figliastra è ancora viva grazie allo specchio magico, il quale le dice che Biancaneve è ancora più bella di lei. Trasformatasi in una vecchia mendicante, si presenta nella casa dei nani e cerca per due volte di uccidere Biancaneve, prima stringendole una cintura in vita fino a toglierle il respiro, poi facendole passare tra i capelli un pettine avvelenato. In entrambi i casi la giovane sviene, ma è salvata dai nani, che le ordinano di non far entrare nessuno in casa in loro assenza. Travestita da vecchia venditrice di frutta, la regina ritorna con una mela avvelenata e Biancaneve, al primo morso, cade in uno stato di morte apparente. I nani la pongono in una bara di cristallo e la sistemano sulla cima di una collina, dove un principe nel vederla rimane colpito dalla bellezza della fanciulla e vorrebbe portarla nel suo castello per poterla ammirare e onorare tutti i giorni. I nani acconsentono, ma nel trasportare la bara un servitore fa cadere la bara: allora dalla bocca di Biancaneve esce il boccone avvelenato e la ragazza si risveglia. Biancaneve s'innamora del principe e subito sono organizzate le nozze, alle quali è invitata anche la Regina che non conosce il nome della sposa, per cui rimane impietrita quando riconosce Biancaneve che ha fatto arroventate due scarpe di ferro e costringe la malvagia matrigna a indossarle, così che per il dolore la donna deve ballare fino a cadere morta.
Bruno Bettelheim, nell’analizzare questa fiaba, sottolinea che è ancora una matrigna a prendere il posto della madre. Dopo avere iniziato ad avere rapporti normali con la bambina, la regina diventa la tipica “matrigna” delle fiabe, quando Biancaneve comincia a maturare come donna, perché si sente minacciata e dà libero sfogo al suo narcisismo. Allora, per paura di essere eclissata dalla bellezza di Biancaneve e per essere rassicurata circa la propria avvenenza, si rivolge allo specchio magico. La fiaba evidenzia le dannose conseguenze che l’invidia narcisistica di un genitore può avere verso una figlia: finché è una bambina, Biancaneve non minaccia il narcisismo della matrigna ma, quando comincia a sviluppare la propria sessualità, viene percepita come un pericolo da una donna tormentata dall’invidia e dalla gelosia, che non è più in grado di stabilire un rapporto positivo con la ragazza. Secondo Bettelheim, “le relazioni fra Biancaneve e la regina stanno a simbolo di certe gravi difficoltà che possono determinarsi tra madre e figlie […] Quasi distrutta dai precoci conflitti della pubertà e dalla competizione con la matrigna, Biancaneve cerca di fuggire a ritroso in un periodo di latenza scevro di conflitti dove il sesso rimane assopito e quindi le tempeste dell’adolescenza possono essere evitate […] La matrigna, che rappresenta gli elementi negativi a livello conscio del conflitto interiore di Biancaneve, ricompare sulla scena e sconvolge la pace interiore della fanciulla” (Il mondo incantato. op. cit).
Nel mondo del fumetto il 28 ottobre 1917 Sergio Tofano in arte “Sto” (1886-1973) pubblica sul Corriere dei Piccoli la prima tavola del signor Bonaventura, un personaggio destinato ad avere un enorme successo fino a diventare il simbolo di un’epoca compresa tra le due guerre mondiali. Dopo la tragedia della Grande Guerra l’Italia ha bisogno di ottimismo e di speranza, per cui questo personaggio entra nell’Olimpo delle maschere italiane, diventando un classico della letteratura per ragazzi e un punto di riferimento per gli adulti conquistati dalla misurata eleganza e ironia delle trovate comiche. Al successo del personaggio contribuisce una linea grafica legata allo stile degli anni Venti fatta di alcuni elementi futuristi e di “virtuosismi” liberty. I disegni sono spesso delle vere e proprie scenografie teatrali con fantastici paesaggi urbani, tagli di luce che creano quinte e profondità, personaggi che escono fuori dal boccascena, costumi soprattutto femminili che sono delle incredibili toilettes alla moda.
Bonaventura ha una famiglia formata dalla moglie “Reginotta”, dal figlio “Pizzirì”, dal maldestro nipote “Omobono”, dall’inseparabile cane bassotto. Ha per amico il “Bellissimo Cecé”, un elegante damerino ricco ma sfortunato, molto abile a cacciarsi nei guai dai quali riesce sempre a tirarlo fuori il signor Bonaventura. Il nostro eroe deve vedersela anche con alcuni nemici come il “Baron Partecipazio” e il “dottor Creoacuore”, ma soprattutto con il torvo e crudele Barbariccia “dalla maschera verdiccia”, una figura che rappresenta l’incarnazione fisica dell’invidia e di altri sentimenti poco nobili dell’uomo. Eternamente in conflitto con Bonaventura, questo personaggio esce sistematicamente sconfitto e in quel momento il suo viso si colora di verde, perché è divorato dall’invidia per i successi del suo avversario.
Le avventure del signor Bonaventura si distinguono per tre principali filoni: le sue azioni apertamente maldestre finiscono per essere utili al prossimo e terminano sempre in modo positivo, perché egli riceve come premio un grande biglietto bianco su cui è scritto “un milione”, che diventa la misura di una impossibile felicità per le famiglie italiane che negli anni Trenta cantavano “se potessi avere mille lire al mese. Queste storie ispirano ottimismo, perché inizialmente fanno cadere sul nostro eroe umiliazioni e sciagure, ma si concludono felicemente portando un segno di speranza da spendere nella nostra vita quotidiana.
“Con il meccanismo dell’iterazione, che ce lo mostra sempre povero all’inizio di ogni storia e ricco al termine di essa, la convenzione su cui Tofano si basa, evidenzia ancora di più l’impalpabile, ma categorica dissacrazione proprio di quello che rappresenta, per la nostra società, il primo e più importante dei valori, cioè il denaro. Fiumi di soldi scorrono invano tra le mani di questo etereo milionario che non capitalizza, pago di riproporre ogni volta se stesso nella sua divisa bianca e rossa, con il fido bassotto ai piedi. […] Bonaventura non può subire mutamenti: egli non è alternativo rispetto a un regime o a un’epoca, ma nei confronti di un’idea e di una visione del mondo. Gli altri, quelli che si oppongono, sono diversi da lui proprio perché si eccitano, perché si emozionano, perché si agitano: come il feroce Barbariccia che – per una splendida trovata grafica di Sto – cambia colore secondo i diversi stadi dell’ira” (A. Faeti, Guardare le figure, Einaudi, Torino, 1972, pp. 306, 308-311).