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L'invidia (seconda puntata)

Alberto Pellegrino

 

AO

 

L’invidia è uno dei sentimenti più antichi che tormentano l’animo umano, causa un tormento interiore che provoca avversione e risentimento verso gli altri, ma che anche un disagio interiore che impoverisce l’esistenza dell’individuo che la prova. Questo “mostro dagli occhi verdi”, come la definisce Shakespeare, nasce da una avversione che si prova verso un’altra persona per le sue doti intellettuali, per la sua posizione sociale o economica spesso ritenuta immeritata e quindi ritenuto dall’invidioso come un’offesa personale, l’usurpazione di un ruolo egli vorrebbe per se stesso. L’invidia sarà presa in esame sotto il profilo storico e psicologico e, facendo ricorso alla sociologia della letteratura, attraverso alcuni esempi tratti dalla letteratura, dal teatro, della cultura popolare e del fumetto.

 

L’invidia è stato uno dei temi più presenti nel mondo letterario e teatrale. Ci limitiamo a fare riferimento ad alcuni autori che consideriamo esemplari.

Nel mondo classico Ovidio, nelle Metamorfosi (Libro secondo, 760-783; 787-794), dà una particolareggiata descrizione dell’invidia, dicendo che è solita cibarsi di carne di vipera, cibo adatto ad alimentare questo vizio che assume l’aspetto di una persona macilenta e pallida in volto: “La magrezza le assedia le ossa, il suo sguardo è sempre bieco, i denti sono neri e corrosi, ha il petto pieno di livido fiele e la lingua cosparsa di veleno. Non sa che cosa sia il riso, se non quello suscitato dai dolori altrui; ignora il sonno, agitata da ansie che la inducono a vegliare continuamente; assiste con struggente dispiacere agli eventi felici degli uomini; rode gli altri e si rode e questo è il suo supplizio”. 

Nel medioevo Dante Alighieri considera l’invidia un peccato capitale meno grave degli altri sei e colloca gli invidiosi nel secondo girone del XIII canto del Purgatorio dove, secondo la legge un po’ sadica del contrappasso, questi peccatori hanno gli occhi cuciti col fil di ferro. Cecco D’Ascoli, autore del più grande poema didascalico del Trecento L’Acerba, nel Secondo Libro affronta temi di teologia e di morale, dedicando il 16 capitolo a questo peccato: “L’invidia, che il mondo no abbandona/E fura la virtù dell’intelletto/Ed arde ciecamente la persona, /Manduca l’alma distruggendo il core. /D’ogni peccato s’ha qualche diletto, /D’invidia non s’ha altro che dolore”.

Era impossibile che Shakespeare, il più grande genio drammaturgico di tutti i tempi che nel suo teatro ha collocato tutto lo scibile e ha parlato di tutte le passioni umane, non parlasse dell’invidia che è presente in diverse sue tragedie e commedie. 

La tragedia per eccellenza della gelosia, dell’odio e dell’invidia è però Otello, dove Jago è divorato e ossessionato dal sentimento dell’invidia che si tramuta in odio, per cui mette la sua diabolica intelligenza per distruggere Otello il Moro, Cassio il bello, la splendida e candida Desdemona. In questa opera teatrale l’invidia è l’origine da cui scaturiscono tutti i mali, la chiave di volta dell’azione, il moto dell’anima che dà inizio a un susseguirsi di avvenimenti che porteranno inevitabilmente a un epilogo tragico. Shakespeare sembra volerci far riflettere e mettere in guardia, attraverso il diabolico Iago, sulla pericolosità dell’invidia e della gelosia che si insinuano velenosamente nei rapporti umani, facendo di Iago l’emblema dell’invidia come Otello è il simbolo di una gelosia cieca, che alimenta se stessa fino a distorcere completamente la realtà, rovinando e distruggendo i rapporti tra le persone, senza lasciare più spazio ai buoni sentimenti, per cui la dolce Desdemona, nonostante la sua indole buona e giusta, è destinata a soccombere. 

Jago è un diverso perché sembra divorato e sospinto da un demone che è il suo unico e inesorabile dio: non prova pietà per nessuno, non crede nell’amore che considera “un infuocamento del sangue e una sospensione della volontà”; considera assurda qualsiasi forma di rispetto per gli altri; non concepisce come valori il primato della coscienza e dell’onore; coltiva come unici sentimenti validi l’invidia, l’odio e l’egoismo; è il portatore di un progetto carico di perverse passioni, che mette l’invidia al posto della solidarietà e della pietà, colloca l’odio al posto dell’amore.

Nadia Fusini, una delle maggiori studiose di Shakespeare, analizza così il legame tra invidia e odio che caratterizza Jago: “L’invidia è vile e servile e segreta. L’invidioso morde la cinghia del suo proprio capestro, mastica quell’umore dentro di sé divora la propria bile, chiude a chiave nel fondo del cuore la sua miseria…E’ sul tema dell’odio che si apre il dramma. In gocce di odio si distilla l’invidia di Jago nei confronti di Cassio, che Otello ha preferito come suo luogotenente, invece di premiare lui…Con atto sacrilego e blasfemo chiama a testimone della sua mostruosa macchinazione il Cielo e dichiara solennemente che non per amore né per senso del dovere lui serve Otello” (Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, Milano, 2010, pp. 211-212).

Nel Settecento Alfieri affronta il tema dell’invidia nella sua tragedia Saul, avendo come fonte principale la Bibbia, mentre nell’Ottocento Giacomo Leopardi nei Pensieri parla dell’egoismo, dell’invidia e dell’odio: “O io m’inganno, o rara è nel nostro secolo quella persona lodata generalmente, le cui lodi non siano cominciate dalla sua propria bocca. Tanto è l’egoismo, e tanta l’invidia e l’odio che gli uomini si portano gli uni agli altri, che volendo acquistar nome, non basta far cose lodevoli, ma bisogna lodarle, o trovare alcuno che in tua vece le predichi e le magnifichi di continuo, intonandole con gran voce negli orecchi del pubblico, per costringere le persone sì mediante l’esempio, e sì coll’ardire e colla perseveranza, a ripetere parte di quelle lodi” (XXIV, p. 486). 

Persino il buon Edmondo De Amicis nel suo libro Cuorecosì pieno di buoni sentimenti, non può fare a meno di parlare dell’invidia incarnata da Votini, il compagno di banco del protagonista Enrico, il quale lo descrive come “uno molto ben vestito, che sempre si leva i peluzzi dai panni…Io gli vorrei bene, benché sia un po’ vanesio e si ripulisce troppo; ma mi fa dispetto veder com’è invidioso di Derossi”. Votini vorrebbe competere con il primo della classe e “Quando Derossi risponde alle interrogazioni così pronto e bene, egli si rannuvola, china la testa, finge di non sentire, o si sforza di ridere, ma ride verde. E siccome tutti lo sanno, così quando il maestro loda Derossi, tutti si voltano a guardar Votini, che mastica veleno”. Allora il maestro, che se ne accorge, lo rimprovera dicendogli “Votini non vi lasciate entrare in corpo il serpe dell’invidia: è un serpe che rode il cervello e corrompe il cuore”.

L’invidia è strettamente collegata al malocchioun potere malefico al quale l’invidioso ricorre quando vuole danneggiare o addirittura distruggere un’altra persona. Secondo la cultura popolare si tratta di un potere posseduto da individui che riescono con la forza dello sguardo a colpire gli altri, trasmettendo influssi nocivi capaci di provocare un parziale o diffuso malessere fisico (mal di testa, nausea, depressione) o addirittura la morte della vittima. L’arma più efficace per “lanciare” il malocchio è la fattura, una pratica circondata da misteriose credenze e messa in atto dai fattucchieri, strane figure maschili o femminili in possesso di riti antichi e segreti, dedite a colpire in modo malefico una persona, oppure a eliminare gli effetti di un’altra fattura.  

Al malocchio è spesso associata la figura dello jettatore che si crede possieda un influsso malefico capace di provocare disgrazie e sfortuna, un potere che può danneggiare gli altri anche senza la precisa volontà di fare del male, per cui lo jettatore può essere diverso dallo spargitore del malocchio che agisce sempre per invidia e rancore verso un'altra persona. 

L’etichetta di iettatore assegna a un individuo un preciso ruolo sociale e può provocare gravi danni sul piano umano, sociologico, psicologico ed economico, essendo un pregiudizio che può sfociare in forme di emarginazione e di persecuzione fino a rendere il presunto iettatore un capro espiatorio, al quale attribuire la colpa di tutti i mali con la grave conseguenza di far rimanere la vittima un isolato, di fagli perdere il lavoro o, in alcuni casi, di spingerlo fino al suicidio.

Secondo uno stereotipo prevalente la fisionomia dello jettatore risponde a determinate caratteristiche fisiche e morali che lo rendono inviso alla comunità: è un individuo  triste, un colorito cupo e olivastro, un naso adunco, occhi piccoli e dallo sguardo bieco; è una persona pedante, seriosità, permalosa, antipatica, solitamente vestita di nero,  metaforicamente paragonata a un “uccello del malaugurio” latore di sventure. La tradizione popolare impone al suo passaggio, subito dopo essere stati investiti dal suo influsso negativo, di compiere determinati scongiuri come toccare oggetti di ferro, corni di colore rosso, fare le corna, di recitare determinate formule magiche.

Luigi Pirandello affronta il tema del malocchio e dello jettatore nel bellissimo atto unico La patente (1918), un dramma in cui emergono alcune tematiche tipicamente pirandelliane basate sulle relazioni sociali inquinate da pregiudizi e superstizioni, che portano a condannare un individuo all’emarginazione e alla miseria sulla base di apparenze, esteriorità e giudizi superficiali. Questa condizione di isolamento e di condanna sociale costringe il protagonista della pièce a trasformare la sua condizione di jettatore in una professione per la quale è necessario ottenere dalla magistratura una “patente”, in modo da riscuotere un onorario da tutti coloro che non vogliono cadere vittime del malocchio. Pirandello descrive così il protagonista che si reca dinanzi al giudice: “Rosario Chiarchiaro s'è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S'è lasciato crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s'è insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d'osso che gli danno l'aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d'India in mano col manico di corno”. 

Con questa “maschera” da menagramo, Chiarchiaro si presenta in tribunale per reclamare quanto ritiene un suo diritto: se l’opinione pubblica lo considera uno jettatore, allora è giusto che tutti lo vedano sotto questa veste e, visto che non sarà possibile cambiare il giudizio della gente, è doveroso che gli sia riconosciuto un vantaggio economico. Il giudice D'Andrea, seriamente convinto che la iella non esista, vuole rendere giustizia a questo uomo messo al bando dalla società sulla base di una sciocca superstizione ed è disposto a condannare il figlio del sindaco e un assessore, contro i quali Chiarchiaro ha sporto denuncia per diffamazione a seguito degli scongiuri fatti pubblicamente al suo passaggio. 

E’ però lo stesso querelante a comunicare di aver cambiato idea e di voler fornire prove e testimonianze della sua capacità iettatoria, in modo da essere condannato e quindi ottenere quella “patente” necessaria per esercitare in modo onesto e lampante la sua “professione”. In questo modo potrà essere risarcito dai danni subiti, perché a causa della cattiva fama che gli è stata cucita addosso, egli ha perduto il lavoro, la sua famiglia costretta a vivere chiusa in casa e a patire la fame, le sue belle figliole non hanno più nessuno disposto a sposarle. E’ quindi necessario che non esistano più dubbi sulle sue doti iettatorie: coloro che lo temono dovranno pagare una somma e, per evitare il reato di estorsione, è indispensabile che il giudice lo condanni per far pagare ai superstiziosi una tassa contro la iella. Il giudice si rifiuta di emettere la sentenza, ma in quel preciso momento un colpo di vento fa cadere la gabbia, facendo morire il cardellino unico ricordo della sua defunta mamma. Gli stessi componenti del collegio giudicante, che hanno assistito muti e sbigottiti all'accaduto, pagano in silenzio il loro obolo a Chiarchiaro che lo accetta sghignazzando, iniziando in questo modo ad ufficialmente la sua professione di jettatore.