Salta al contenuto principale

La parola "avarizia" si traduce oggi con avidità (terza puntata)

Alberto Pellegrino

AO
L'avarizia consiste nella non volere spendere o donare ciò che si possiede a causa di una forma di gretto attaccamento al denaro o a qualsiasi altro bene mobile. La Chiesa cattolica considera l'avarizia uno dei sette vizi capitali e, quando l'avarizia riguarda un soggetto che fa un eccessivo accumulo e consumo di cibo, si usa a volte il termine “gola” che è un altro dei sette vizi capitali. La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro è infatti una sfida verso Dio, poiché occupa il suo posto: «Nessuno può servire due padroni, - dice Gesù - perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24).

 

Il personaggio dell’avaro è talmente grottesco da prestarsi ad essere oggetto di comicità e di satira sociale, per cui non poteva mancare nella commedia classica ed è Plauto, il maggiore esponente del teatro latino, è stato il primo a creare una figura che diventa il prototipo e l’incarnazione stessa dell’avarizia, tanto da essere poi ripreso come modello in tanti lavori della letteratura teatrale europea. Il denaro come ragione di vita, come pensiero dominante, dietro il quale si celano insicurezza di sé e timore assillante del futuro, è il tema che Plauto sviluppa in chiave comica nella commedia Aulularia, conferendo all’avarizia come una carica farsesca e facendo passare il protagonista Euclione attraverso una serie di situazioni ridicole. Questo avaro è un uomo gretto, avido, sospettoso, nevrotico: ha nascosto una pentola piena d’oro in un luogo segreto su cui vigila ossessivamente, non avendo altra preoccupazione che qualcuno possa derubarlo del suo tesoro. 

Quando il ricco vicino Megadoro va da Euclione per chiedere in sposa sua figlia Fedria, l’uomo sospetta che si tratti di una manovra per scoprire il nascondiglio del suo oro, ma dà il suo consenso purché si accetti l’idea che sua figlia non avrà una dote e che Megadoro s’impegni a pagare tutte le spese della festa di matrimonio. Euclione non sa che sua figlia è stata violentata da Liconide, figlio di Eunomia sorella di Megadoro, che Fedria è rimasta incinta, per cui il giovane vorrebbe sposarla. Euclione, per proteggere il suo tesoro, decide di spostare la pentola nel tempio della dea Fede, dove Strobilo, servo di Liconide, lo vede nascondere il tesoro che vorrebbe prendere, ma Euclione ritorna e decide di spostare la pentola nel bosco sacro al dio Silvano. Questa volta il servo, che l'ha seguito, ruba la pentola e la nasconde in casa di Megadoro. Liconide intanto, con l'aiuto della madre, ha spiegato a llo zio Megadoro la situazione e ha ottenuto il consenso a chiedere in sposa Fedria. Quando va a parlare con Euclione, tuttavia, il vecchio è disperato perché si è accorto della sparizione della pentola, e tempesta di domande Liconide, il quale pensa che il vecchio stia parlando di sua figlia e della sua gravidanza, mentre Strobilo offre la pentola a Liconide, in cambio della sua libertà. Liconide si fa restituire il denaro dal servo e lo riconsegna a Euclione che gli concede la figlia in sposa assegnandole una ricca dote. Questo finale è stato aggiunto nel Quattrocento dall’umanista Urceo Codro, il quale avvertì il bisogno di aggiungere una conclusione della vicenda che ormai è diventata anch’essa un classico.

Nella commedia vi sono due celebri scene. La prima è costituita dal monologo pronunciato da Euclione dopo avere scoperto il furto della sua pentola: “Sono rovinato, perduto, defunto. Dove corre­re, e dove no? Acchiappalo, acchiappalo! Acchiappare chi? Chi è stato? Non so, non vedo nulla, cammino a tastoni; dove vado, dove sono, chi sono? Non riesco più a saperlo con certezza. (Rivolto agli spettatori) Vi prego, vi supplico, vi scongiuro, aiutatemi voi, indica­temi l'uomo, chi l'ha portata via. Che dici tu? Sono di­sposto a crederti: ti vedo dalla faccia, che sei onesto. Che c'è? Di che ridete? Vi conosco tutti quanti, so che qui ci sono molti ladri, nascosti sotto la toga candida e assisi come galantuomini. Come, non ce l'ha uno di costoro? Ah, che pugnalata! di' dunque: chi l'ha? Non sai? Oh, quale gran sventura! Che uomo sventurato, conciato per le feste! Che gemiti, che fitte, che lutti questo giorno mi ha dato: son ridotto a fame e povertà. Son l’uomo più finito fra quanti sono in terra: perché, che faccio in vita se l'oro mio, serbato con grandi cure, è perso? Da me mi son privato del soffio della vita; or altri stan godendo di tanta mia rovina. Io certo ne morrò”.

Nella seconda scena la comicità è assicurata dal gioco degli equivoci: Liconide va da Euclione per confessargli di aver usato violenza contro la figlia, mentre il vecchio è disperato per il furto della sua pentola; Liconide si sente in colpa per le frasi pronunciate da Euclione che gli sembrano riguardare la violenza da lui perpetrata su Fedria, mentre Euclione parla del denaro con tanto amore come fosse rivolto a sua figlia. Tutto è giocato sull'utilizzo del pronome personale femminile, il quale indica per Euclione la pentola e per Liconide la fanciulla.

Alla commedia plautina si è apertamente ispirato il film 47 morto che parla (1950) con regia di Carlo Ludovico Brasaglia e la sceneggiatura di Age & Scarpelli e, Metz e Marchesi, con riferimenti all’omonima commedia di Ettore Petrolini e D’Arborio. Il protagonista è il barone Antonio Peretti splendidamente interpretato da Totò. Ancora a questa commedia fa riferimento il fumetto Zio Paperone e la pentola d'oro ( “Topolino”, n.1536, 5 maggio 1985), dove Euclione è Paperone, Liconide è Paperino, Megadoro è Rockerduck e Fedria è Paperina.

Nel XVI secolo Giovan Battista Gelli scrive la commedia La Sporta (1543) che è praticamente una riscrittura della commedia plautina e questo c’introduce nel mondo del teatro moderno che finalmente riprende vita nel Rinascimento. Naturalmente è nella Commedia dell’arte che appare la figura dell’avaro con la maschera veneziana di Pantalone, che nasce intorno alla metà del Cinquecento. E’ un uomo molto attaccato al denaro e un vecchio vizioso che insidia le giovani innamorate e le servette, ma alla fine è sempre costretto ad aprire la borsa. La sua vera origine viene fatta risalire al personaggio del Magnifico che recitava nelle piazze accanto al servo Zanni, con contrasti comici che man mano conquistarono i primi palcoscenici della Commedia dell’arte. La tipologia del personaggio deriva direttamente dalla figura del mercante veneziano del XVI secolo rappresentato in diverse opere di pittori veneziani rinascimentali come Vittore Carpaccio, Jacopo e Giovanni Bellini, il Veronese.

Nelle rappresentazioni cinquecentesche appare con una corporatura robusta e sgraziata, con indosso una lunga zimarra nera e una calzamaglia rossa, con una maschera nera dal naso adunco, una barbetta da capra, una cintura con appesa una borsa di denaro e un piccolo coltello a doppia lama (pistolese), classico strumento di mercanti e artigiani, usato da Pantalone nel suoi scontri con il Capitano e con i servi Zanni o Arlecchino. Pantalone è stato uno dei personaggi più longevi della Commedia dell’arte, perché ha attraversato quasi tre secoli e ha superato la riforma goldoniana della commedia, perdendo però il suo aspetto più comico per assumere la figura del padre burbero, avaro e conservatore dei Rusteghi e del Sor Todaro brontolon. Con il teatro riformato egli ha smesso la maschera, ma non ha perduto il suo carattere irascibile e violento; ha inoltre conservato la saggezza del mercante e un discreto attaccamento al denaro fino a quando, con l’affermarsi del dramma borghese ottocentesco, è sparito dalle scene per assumere il ruolo più realistico del “padre di famiglia”. 

Alla fine del Cinquecento la figura dell’avaro arriva in Francia e assume un ruolo essenziale nella commedia L’Avaro diMolière (1668), dove il protagonista Arpagone è un ricco vedovo di estrazione borghese che vive prestando denaro ad alto interesse. Possiede diecimila scudi d’oro non ancora messi al sicuro e vive nel terrore che qualcuno glieli porti via. È disposto a far sposare la figlia Elisa ad Anselmo, un anziano e ricco signore, mentre la ragazza è innamorata del giovane e squattrinato Valerio; a sua volta il figlio Cleante deve sposarsi con una vedova che ha una ricca dote. Nello stesso giorno, per risparmiare le spese, organizza anche il suo matrimonio con la giovane Marianna di cui è innamorato il figlio. Quando il servo Freccia gli ruba il denaro per aiutare il padroncino, Arpagone è sconvolto e cede addirittura al ricatto di far sposare il figlio con la sua fidanzata. Nell’insieme è un essere ripugnate, egoista e spietato, disposto a fare del male ai suoi figli pur di guadagnare del denaro. 

A differenza dell’Aulularia di Plauto, da cui l’autore trae ispirazione, questa commedia ha una struttura più complessa per l’intreccio dei vari personaggi, per il moltiplicarsi della situazioni comiche e per il maggiore rilievo che ha la vicenda amorosa, perché Molière affianca al tema dell’avarizia più estrema anche il problema dei matrimoni combinati e del gioco d’azzardo, un vizio che affligge Cleante, al quale il padre presta segretamente il denaro all’interesse del 25 per cento. 

Dopo la sparizione della sua cassetta con i 10 mila scudi, Arpagone pronuncia il suo celebre monologo: “Al ladro! al ladro! all'assassino! al brigante! Giustizia, giusto Cielo! sono perduto, assassinato, mi hanno tagliato la gola, mi hanno derubato di tutto il denaro. E chi può essere? Che fine ha fatto? Dov'è? Dove si nasconde? Che cosa posso fare per trovarlo? Dove correre? Dove non correre? Sarà di là? Sarà di qua? E tu chi sei? Fermati. Rendimi i soldi, manigoldo... (Si afferra da sé il braccio) Ah! sono io. Son tutto in confusione, non so più dove sono, chi sono e quel che faccio. Misero me! povero mio denaro, povero mio denaro, amico mio carissimo! mi hanno privato di te; ti hanno portato via, ho perduto il mio sostegno, la mia consolazione, la mia gioia; tutto è finito, non ho più niente da fare al mondo, non posso vivere senza di te. È la fine, più non resisto; son lì per morire, sono morto, son seppellito; c'è qualcuno che voglia resuscitarmi, che mi renda l'amato denaro o che mi indichi chi l'ha preso? Eh? che avete detto? No, non c'è nessuno qui attorno. Chiunque abbia fatto il colpo, dev'essere rimasto vigile a spiare il momento buono; e ha scelto giustamente di intervenire quando stavo parlando con quel traditore di mio figlio. Usciamo. Voglio ricorrere alla giustizia e coinvolgere tutta la casa; fantesche, servitori, figlio, figlia, e me compreso. Quanta gente vedo riunita! Chiunque mi cada sotto gli occhi, mi fa nascere il sospetto, vedo il mio ladro in ogni cosa. Eh! di che si parla laggiù? Di colui che mi ha derubato? Che chiasso si sta facendo là in alto? Che c'entri il mio ladro? Di grazia, se avete notizie del ladro, vi supplico, parlate. Non sarà nascosto in mezzo a voi? Tutti mi guardano e se la ridono; garantito, hanno a che fare col furto, non c'è dubbio. Su, presto, commissari, armigeri, bargelli, giudici, supplizi, patiboli e carnefici. Voglio fare impiccare tutti; e se non ritrovo il mio denaro, m'impiccherò io stesso”

Carlo Goldoni scrive L'avaro (1756) è una commedia in un atto che è una rivisitazione dell'omonima commedia di Molière. L’azione si svolge a Pavia dove il vecchio avaro Don Ambrogio vive in una casa vicina alla nuora Donna Eugenia rimasta vedova di suo figlio. Malgrado il vecchio dica di essere affezionato alla giovane che è per lui una fonte di spese, non vuole che si rimaritare per non perdere la sua dote. Vi sono, però, tre pretendenti che vorrebbero unirsi in matrimonio con la giovane vedova: il Conte Filiberto dell'Isola e il Cavalier Costanzo degli Alberi che si sono già dichiarati a Donna Eugenia e godono della sua benevolenza, che però si riserva di dar loro una risposta, perché è ancora sotto la potestà del suocero; il terzo pretendente è Don Ferdinando, uno studente di Mantova che deve ancora terminare gli studi. Don Ferdinando è un giovane timido che non ha mai avuto il coraggio di dichiarare i propri sentimenti alla giovane vedova e, cosa molto importante, non è interessato alla dote di Donna Eugenia a differenza degli altri pretendenti. Quando i tre uomini si recano (in separati momenti) per domandare a Don Ambrogio la mano della bella Eugenia, solamente Don Ferdinando riesce a entrare nelle grazie del vecchio avaro, dichiarando di non pretendere nessuna dote. Don Ambrogio è felice di non doversi separare da quel piccolo tesoro, per cui accetta senza alcuna rimostranza il matrimonio tra i due e si reca per primo dalla nuora per annunciarle che giungerà presto il giovane che lui ha deciso di concederla in seconde nozze. Quando Don Ferdinando si decide a recarsi presso Eugenia per comunicarle l’accordo, ma non riesce a dir quasi nulla. Il Conte e il Cavaliere, che lo hanno preceduto, sono intenti a commentare con asprezza il trattamento loro riservato da Don Ambrogio. Donna Eugenia, scaltra come la maggior parte delle figure femminili goldoniane, riesce ad intendere quanto Ferdinando vorrebbe dirle e, con tatto, riesce a trarlo d'impiccio spiegando agli astanti che il ragazzo è lì soltanto per comunicarle la propria partenza e chiederle consiglio sulla donna di cui s'è innamorato. Rivolgendosi con garbo al giovane, gli consiglia di partire a cuor leggero, aggiungendo che colei per cui trepida lo stima molto ma non ne è innamorata. L’intreccio viene sciolto con una trovata del Cavaliere Costanzo degli Alberi che propone una vantaggiosa soluzione: la dote resterà nelle mani di Don Ambrogio fin quando sarà in vita; alla sua morte, egli eleggerà la vedova sua erede universale, per cui la dote e i suoi frutti saranno restituiti alla donna. Questa risoluzione rende felice Don Ambrogio e, visto che il Cavaliere è un galantuomo realmente interessato a maritarsi con la bella Eugenia, verrà presto stipulato il contratto matrimoniale con buona pace di tutti, meno uno stizzito Conte Filiberto. 

Nel 1776 Goldoni scrive L'avaro fastoso, una commedia in cinque atti in lingua francese e rappresentata a Parigi con scarso successo. in questa opera comica mantiene il classico personaggio dell’avaro nella persona del Conte di Casteldoro, un uomo arricchito e vanesio,  che si trova costretto a pagare molti zecchini d'oro a un letterato per non essere pubblicamente dileggiato davanti alle persone a cui aveva dato ad intendere fossero suoi per dover restituire i diamanti presi a prestito da un gioielliere perdonarli a Eleonora, la ragazza che egli vorrebbe sposare per appropriarsi della sua dote. Con la figura del protagonista, un nuovo ricco che ha acquistato il titolo nobiliare e progetta un conveniente matrimonio, Goldoni crea un avaro moderno che unisce all'avarizia intesa come sviluppo economico e astuzia imprenditoriale, l'ostentazione di chi ambisce a un mondo socialmente superiore, che si differenzia dei vecchi avari di commedia sempre intenti a controllare l'oro nascosto in una cassetta. Intorno al protagonista si muove un mondo governato dal denaro, che non è poi molto dissimile da quello di Casteldoro, ma è solo più rispettoso delle convenzioni sociali. Si tratta quindi di una commedia amara e sgradevole, dove la componente comica è confinata in poche scene, mentre analizza con preveggenza le incertezze morali e l'egoismo sociale di un mondo regolato dal guadagno destinato ad affermarsi nella società industriale dell’Ottocento.