Alberto Pellegrino
L'avarizia consiste nella non volere spendere o donare ciò che si possiede a causa di una forma di gretto attaccamento al denaro o a qualsiasi altro bene mobile. La Chiesa cattolica considera l'avarizia uno dei sette vizi capitali e, quando l'avarizia riguarda un soggetto che fa un eccessivo accumulo e consumo di cibo, si usa a volte il termine “gola” che è un altro dei sette vizi capitali. La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro è infatti una sfida verso Dio, poiché occupa il suo posto: «Nessuno può servire due padroni, - dice Gesù - perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24).
Sin dall’antichità la parola avarizia ha indicato la brama eccessiva di ricchezza e l’attaccamento esagerato al denaro. La figura dell’avaro (dal latino avarum, stessa etimologia di avidus) è sempre stata un argomento di grande interesse per scrittori e poeti e, fino ai nostri giorni, gli avari sono considerati degli egoisti che usano il prossimo a proprio vantaggio, che hanno come unico obiettivo il piacere di accumulare, che amano esageratamente la ricchezza, per cui il denaro assume per loro un valore fine a se stesso, portando l’avaro a condurre una vita priva di piaceri e di affetti.
Nel medioevo Dante Alighieri considera l’avarizia un peccato da punire perché rappresenta un’offesa diretta a Dio. Nell’Inferno e nel Purgatorio danteschi, gli avari e i prodighi sono sottoposti alla stessa pena, in quanto il loro vizio ha il medesimo movente nel desiderio inestinguibile di accumulare ricchezza, gli avari il piacere del possesso e i prodighi per spenderla in modo irrazionale: entrambi peccano per incontinenza e sono collocati nel quarto cerchio dell’Inferno (dopo i lussuriosi e i golosi), nella quinta cornice del Purgatorio. Nel settimo canto dell’Inferno avari e prodighi scontano la loro pena divisi in due schiere che percorrono un semicerchio spingendo dei massi col petto. Quando si scontrano, si ingiuriano e si rinfacciano a vicenda la loro colpa per poi voltarsi e ripetere lo stesso movimento, scontrandosi ancora nella parte opposta del semicerchio.
Sempre nel Trecento Boccaccio s’interessa dell’avarizia, inserendola in diverse sue opere (Filocolo, Filostrato, Ameto, Amorosa visione), ma è soprattutto nel Decamerone che l’avaro assume un ruolo da protagonista, perché in molte novelle di questo capolavoro troviamo il nuovo personaggio del mercante. Infatti la classe mercantile, disprezzata da Dante e ignorata dal Petrarca, acquista una particolare importanza sociale per Boccaccio che ne coglie l’intelligenza, l’abilità, l’entusiasmo verso la vita. Quando però questi borghesi cominciano a essere troppo concentrati sui propri affari, a mostrare un eccessivo attaccamento al denaro, cadono allora nel vizio dell’avarizia che Boccaccio considera la negazione di ogni gentilezza e virtù, un tarlo che corrode la società, la quale perde così lo slancio disinteressato e la generosità della civiltà comunale. Nell’ottava novella della prima giornata, Boccaccio presenta in questo modo il ricchissimo e avaro Erminio de’ Grimaldi: “Sì come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, così d’avarizia e di miseria ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che, non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi che usi sono di nobilmente vestire, sosteneva egli, per non spendere, difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritatamente, gli era de’ Grimaldi caduto il soprannome e solamente messer Erminio Avarizia era da tutti chiamato".
Con un notevole salto temporale arriviamo all’Ottocento e c’imbattiamo in Inghilterra nel personaggio di Ebenezer Scrooge, il protagonista del racconto Canto di Natale di Charles Dickens (1843), un personaggio che rappresenta una delle più celebri figure di avaro dal cuore di ghiaccio, che disprezza il Natale e considera la sua celebrazione solo una perdita di tempo. Scrooge è un vecchio banchiere londinese attaccato al denaro e divorato dall’odio contro il mondo che sfoga considerando il Natale solo una pausa del lavoro, durante la quale non si può guadagnare. Egli si rammarica perché deve ugualmente pagare il suo umile contabile Bob Cratchit anche se gli dà uno stipendio da fame e lo costringe a presentarsi al lavoro anche il giorno successivo al Natale per rifarsi del tempo perduto il giorno prima. Del resto egli è abituato a trattare in malo modo le persone che si rivolgono a lui, siano essi dei gentiluomini che chiedono un contributo per i poveri o un ragazzo venuto a elemosinare pochi spiccioli in cambio di un allegro canto natalizio. Nemmeno il suo unico parente Fred, l'affettuoso nipote figlio della sorella defunta, è immune da un trattamento ostile. Pertanto tutti odiano Scrooge e cercano di stargli alla larga, per cui egli vive da solo nella casa che ha ereditato del suo defunto socio in affari Jacob Marley, suo unico amico.
La sera della vigilia di Natale il fantasma di Marley viene a visitarlo e gli anticipa la visita di tre spiriti che cercheranno di salvare la sua anima dalla dannazione eterna per non saputo amare nel corso della sua vita. Il primo fantasma mostra a Scrooge la sua solitudine da bambino, i suoi errori, i suoi peccati, che lo hanno reso l'uomo che è tuttora. Straziato da questa visione, Scrooge scaccia lo spettro. Il secondo spettro mostrerà i festeggiamenti del Natale di molti suoi conoscenti, tra cui Fred e la famiglia Cratchit, tutti poveri ma felici, nonostante non siano ricchi. Scrooge viene a sapere dell'esistenza di Timmy, il figlio minore di Bob Cratchit, un bambino malato che potrebbe morire se non avrà le cure necessarie che suo padre non può permettersi con il salario da fame che riceve. Poi lo spirito presenta a Scrooge due bambini che rappresentano l'ignoranza e la miseria e sono destinati a morire assieme ad altri bambini. L'ultimo fantasma mostra a Scrooge cosa succederà al figlio di Cratchit, il quale morirà la sera di Natale dell'anno successivo; inoltre gli fa vedere la derisione e la freddezza che prova la gente per la morte di un vecchio tirchio e odiato da tutti. Scrooge scoprirà chi è quella persona quando lo spirito lo conduce dinanzi ai una lapide sui cui è scritto il suo nome. In quel momento il vecchio comprende che, se non cambierà la sua vita, troverà ad attenderlo una morte dolorosa per cui, quando si risveglia, è un uomo diverso. Il giorno di Natale manda un ragazzo a comprare il più grosso tacchino in un negozio vicino e lo fa portare a casa di Bob Cratchit. In seguito esce per strada salutando tutti con affabilità e trova la forza di presentarsi a casa di suo nipote, che ogni anno lo ha invano invitato per il cenone natalizio: accolto con calore, passa il più bel Natale della sua vita. La mattina dopo, nel suo ufficio, aspetta l'arrivo di Cratchit, che si presenta in ritardo e ancora ignaro del cambiamento del suo datore di lavoro. In un primo momento l’impiegato crede che il padrone sia diventato pazzo, ma deve ricredersi quando Scrooge comincia a trattarlo da amico, dandogli un notevole aumento di stipendio e le vacanze mai consumate, scusandosi con lui e promettendo che si prenderà cura della sua famiglia e soprattutto della salute di Timmy. Grazie al migliore salario del padre, il ragazzo viene curato e può guarire, per cui il vecchio conquista l'affetto di tutta famiglia, viene amato e rispettato dalla maggior parte delle persone.
In Francia Honoré de Balzc pubblica nel 1833 il romanzo Eugenia Grandet, la seconda opera del ciclo Scene della vita di provincia. Nonostante il titolo, il vero protagonista dell’opera è il padre di Eugénie, uno degli avari più celebri di tutta la letteratura, perché riesce a cavare soldi da qualsiasi situazione e non è capace di fare alcuna spesa senza prima avere cercato tutti i modi possibili per evitarla. La storia è ambientata a Saumur, un piccolo paese della campagna francese dove Papà Grandet è un anziano vignaiuolo arricchitosi grazie all'eredità paterna fatta fruttare tramite giusti investimenti finanziari. Ha un fiuto infallibile per gli affari e una proverbiale avarizia, per cui il suo maniacale attaccamento all'oro gli procura una grande felicità. Naturalmente Grande fa del tutto per nascondere la sua ricchezza, per non parlarne e, soprattutto, per non spenderla, costringendo sua moglie, sua figlia Eugénie e la serva Nanon a vivere in una vita di miseria e di stenti. La vita scorre in maniera monotona fino all’arrivo di Charles, un elegante e raffinato giovanotto parigino figlio del fratello del padrone di casa, un impresario di un'azienda parigina sull’orlo del fallimento che, in seguito, si suiciderà per disperazione. Papà Grandet, preoccupato per i soldi che dovrà investire per salvare l'onore del fratello, acconsente di ospitare il nipote per pochi giorni. Le donne di casa, al contrario, sono affascinate da questo giovane e specialmente Eugénie è attratta dal cugino. Questo rapporto diventa sempre più stretto e intimo, specialmente dopo che Charles ha appreso la notizia della morte di suo padre. Eugénie è ormai perdutamente innamorata del cugino, ma si tratta di un amore etereo, quasi religioso. Questa relazione non è destinata a durare, perché Papà Grandet decide di spedire il nipote a cercare fortuna nelle Indie; allora Eugénie decide di donare al cugino tutto l’oro, regalatole dal padre; a sua volta Charles dà in pegno a Eugénie un cofanetto con il ritratto della madre, che diventa per lei una sorta di feticcio amoroso. Dopo essersi giurati amore eterno, il giovane parte con la promessa di tornare non appena avrà conquistato la ricchezza. Intanto Papà Grandet, con il pretesto di salvare l'onore della famiglia, rileva i debiti del fratello e riesce a guadagnare un'immensa fortuna. Quando il padre si accorge che la figlia ha regalato il suo oro al cugino, va su tutte le furie, la maledice e la chiude in camera a pane e acqua. La signora Grandet, profondamente sconvolta per le reazioni del marito, si ammala gravemente e supplica il marito di perdonare la figlia. Alla fine il perdono arriva, ma solo dopo aver scoperto che la figlia erediterà la metà delle proprietà delle madre, per cui conviene trattarla bene. Dopo la morte della signora, Eugénie rinuncia all’eredità a favore del padre, ma dopo qualche anno anche Grandet muore ed Eugénie rimane sola ad amministrare l'immensa ricchezza paterna. Prova un grande dolore quando arriva una lettera di Charles, il quale scrive di essere una persona nuova, di essersi arricchito, ma soprattutto di aver conosciuto il mondo e le leggi che lo regolano. Dice anche di rinunciare alla promessa fatta a Eugènie e intendere restituire il prestito ricevuto al momento della partenza. Inoltre Charles le comunica che intende sposare la figlia del duca D'Aubrion, una nobile famiglia decaduta, in modo da assumere un’importante posizione politica e poter entrare nella cerchia vicina al re. Eugènie reagisce con molta compostezza, restituisce il cofanetto al cugino, gli augura buona fortuna e acconsente a sposare il “presidente” Cruchot, trascorrendo tristemente alcuni anni assieme a un marito che non ama e, quando diventa vedova, eredita un notevole patrimonio Eugènie si ritrova ricchissima ma condannata alla solitudine.
La fine dell’Ottocento segna in Italia l’arrivo del Verismo, il cui maggiore esponente è Giovanni Verga che introduce la figura dell’avaro nelle Novelle Rusticane e in particolare nel racconto La roba, nella quale Mazzarò è un contadino divenuto ricchissimo con il lavoro e enormi sacrifici. Uscito dalla sua condizione di bracciante sfruttato, l’uomo è stato preso dall’ossessione della proprietà che rappresenta per lui una forma di potere, un’affermazione nella società rurale di quel tempo. Il fatto di possedere campi, uliveti, magazzini da riempire con abbondanti raccolti, lo fa sentire più forte di un re, ma col passare del tempo Mazzarò è afflitto dal pensiero di diventare vecchio e di dover lasciare la sua roba. Ritiene che questa sia un’ingiustizia di Dio nei suoi confronti e, quando lo avvertono che è giunto il momento di trascurare i suoi averi per pensare alla salvezza dell’anima, fuori di sé dal dolore ammazza a colpi di bastone tutti gli animali domestici dicendo: "Roba mia, vienitene con me!".
Nel romanzo I Malavoglia Verga descrive un mondo basato sull’interesse, narrando le vicende di una famiglia di pescatori uniti nel culto religioso della famiglia. Per migliorare le loro condizioni di vita, i Malavoglia decidono di commerciare con i lupini che prendono a credito dall’usuraio zio Crocifisso. Purtroppo la loro barca, la “Provvidenza”, affonda con il carico di lupini e con il giovane Bastianazzo, per cui cominciano le peripezie e i sacrifici dei Malavoglia per pagare i debiti ed evitare la rovina, mentre lo zio Crocifisso si preoccupa solo di recuperare il denaro del carico di lupini. A causa della sua avarizia l’uomo indossa degli stracci e niente fa pensare che sia tanto ricco da prestare denaro ad usura. La gente di Aci-Trezza lo chiama "Campana di legno", perché fa finta di non sentire giustificazioni dei suoi debitori quando gli dicono di non poterlo pagare.
Nel romanzo Mastro don Gesualdo Verga incarna il mito della “roba” nel personaggio di Gesualdo, un uomo del popolo che ha accumulato ricchezze su ricchezze con il suo lavoro, ha sposato l’ultima erede di una famiglia nobiliare e ha imparentato la figlia con un giovane dell’aristocrazia palermitana, ma alla fine muore nella più disperata solitudine, quando la figlia l’ha relegato e abbandonato a se stesso nella foresteria del palazzo ducale. Gesualdo ha sempre mostrato un grande attaccamento alla ricchezza costata tanta fatica ed è tormentato dall’ansia di proteggerla e di vederla crescere all’infinito: per questo rinuncia alle feste, alle domeniche, alla gioia di vivere per poi andare incontro al suo tragico destino. Sul letto di morte, Gesualdo parla con la figlia e si dimostra tenero e commosso, ma subito dopo la esorta ad avere cura e a non sperperare quella "roba" gli è costata tanta fatica e sacrifici. Fedele alla sua natura di avaro malvagio, solo in punto di morte chiede alla figlia di dare una parte delle sue ricchezze ai figli illegittimi che ha avuto da altre donne e che in vita non ha mai voluto riconoscere.
Nei fumetti il personaggio più celebre e ispirato a famosi avari della letteratura è Paperon de Paperoni, lo zio ricco e spilorcio di Paperino. Passa il tempo a contare il suo enorme capitale, custodito in una cassaforte grande quanto un palazzo. Contemporaneamente continua la sua lotta contro il suo rivale Rocker Duck, egualmente furbo e avaro, per vincere la scommessa di chi è più ricco tra i due. Le sue manie sono quelle di montare trappole per difendere i troppi dollari dai malintenzionati e di non spendere mai un dollaro se non per "un buon affare". Alla fine, se qualcuno si trova in difficoltà, si lascia però convincere dai suoi nipoti a fare il possibile per aiutarlo, mollando meno denaro possibile.