Alberto Pellegrino
L'avarizia consiste nella non volere spendere o donare ciò che si possiede a causa di una forma di gretto attaccamento al denaro o a qualsiasi altro bene mobile. La Chiesa cattolica considera l'avarizia uno dei sette vizi capitali e, quando l'avarizia riguarda un soggetto che fa un eccessivo accumulo e consumo di cibo, si usa a volte il termine “gola” che è un altro dei sette vizi capitali. La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro è infatti una sfida verso Dio, poiché occupa il suo posto: «Nessuno può servire due padroni, - dice Gesù - perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24).
Per una definizione dell’avarizia
Il termine “avarizia” è usato per indicare lo smodato desiderio di accumulare ricchezze attraverso attività economiche o finanziarie, per cui viene considerata una componente negativa del capitalismo. Possedere è di solido considerato un fatto legittimo, ma il possesso diventa un problema quando il denaro e i beni diventano un’ossessione che finisce per prendere possesso dell’individuo: in questo caso l’avaro accumula senza sosta dei beni che non sono destinati a essere usati ma conservati; in particolare il denaro non viene speso, perché altrimenti verrebbe meno il suo potere e l’avaro non potrebbe più consolarsi con il pensiero di potersi servire in qualsiasi momento del denaro che ha accumulato. Come l’orgoglioso, il lussurioso e il goloso, l’avaro è un essere vizioso perché ama in modo smodato qualsiasi bene di questo mondo e, in questo cado, ogni bene che cessa di essere un mezzo ma diventa un fine. «Io sono ciò che ho» ripete di sé l’avaro e pone nell’avere la radice del suo essere, giudicando la realtà che lo circonda un dominio esclusivo ed economicamente quantificabile e trovando in questo dominio una forma di godimento.
E’ possibile parlare di due forme di avarizia. La prima è l’avarizia spirituale che si manifesta come una volontà di possesso riferita non tanto alla ricchezza ma soprattutto a comportamenti morali e sociali di carattere immateriale come il primeggiare nella vita associativa o nell’attività politica, per cui esistono delle persone che non vogliono mai “staccare la spina” ma intendono primeggiare con ogni mezzo e in tutti i settori della società. La seconda forma è l’avarizia materiale che consiste nel dare un valore assoluto al denaro e a qualsiasi altro genere di beni, vengono accumulati in maniera sfrenata, ritenendo che essi possano appagare la sete di potere e di successo che ossessione un individuo. Si possono distinguono tre aspetti di questa avarizia: l’attaccamento al danaro che costituisce l’avarizia in senso proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, che consiste nel desiderio e nell’avidità di acquisire tutto quello che non si possiede; l’ostinazione nel conservare e difendere con determinazione questo possesso, escludendo ogni forma di generosità.
L’avarizia secondo la psicologia
La psicologia considera l’avarizia una patologia della personalità ed è vista come l’attitudine di una persona a conservare quello che possiede, a trattenere con ostinazione presso di sé il denaro e qualsiasi altro bene materiale. L’avaro è una persona che non riesce ad avere una relazione stabile solo per paura di dover condividere il proprio tempo, i propri spazi e i propri averi con un’altra persona.
Si diventa avari spesso per imitazione, cioè per adesione a un mito familiare: la regola implicita o esplicita di una famiglia è di non spendere mai i propri soldi. I figli possono fare proprio questo “mito”, apprendendo dai genitori questo comportamento. In psicologia è stata provato che esiste anche il rovescio della medaglia, perché in una famiglia di avari si possono trovare dei figli che si sono diventati degli scialacquatori di denaro, dei distruttori di patrimoni per reazione ad un comportamento che li aveva fatti sentire infelici. L’avaro soffre di una ferita narcisistica inflitta da una famiglia anaffettiva o che esercita un controllo eccessivamente rigoroso sull’uso dei beni, a quel punto l’individuo sente di non essere amato, non si riconosce come persona meritevole d’amore e trova serenità solo nel possesso dei propri averi.
L’avaro non è necessariamente una “persona cattiva”: di solito è un individuo sospettoso e molto ansioso, perché è dominato dalla paura di non saper controllare la voglia di dare e quindi ha paura di perdere quello che possiede. L’avaro vive inconsciamente la paura di essere abbandonato o dimenticato se si lascia andare e se si libera dei propri affetti materiali. Egli è cresciuto in un ambiente anaffettivo e cerca rifugio nelle cose che possiede, ma questo lo porta a vivere senza provare la volontà condividere i propri beni materiali, ai quali assegna un significato affettivo e che gli servono per esercitare un controllo sugli altri. Uscire da questo “vizio capitale” non è facile, perché si tratta di un disturbo egosintonico, che non viene vissuto come tale dalle persone che ne soffrono e lo vivono, anzi per un avaro essere generosi e disponibili vuol dire essere stupidi, perché sono sempre gli altri a volersi approfittare di lui e volere impossessarsi di quei beni conquistati con fatica e tanti sacrifici.
L’avaro sente di non possedere mai abbastanza e si trova sempre un motivo per avere di più e questo stato d’animo lo porta a non ammettere mai di esserlo, anzi a essere convinto in coscienza di non essere affetto dall’avarizia. È molto difficile trovare pertanto una persona disposta ad ammettere di essere un avaro, eppure non è difficile incontrane qualcuno: si trovano infatti persone che non mettono mai mano al proprio portafoglio, che non invitano mai gli amici a casa propria, che raramente s’incontrano in un negozio o in un supermercato, perché l’avaro non è capace di spendere i propri soldi e non è disposto a donare le proprie cose. Di solito l’avaro, che tende a negare di essere contagiato dal tarlo dell’avarizia, cerca di proteggere se stesso con alcune giustificazioni, come il peso che comporta avare dei figli e assicurare loro un futuro, oppure la necessità di crearsi una solida posizione economica e sociale per tutelare il proprio futuro.
L’avarizia secondo l’antropologia e la sociologia
Per l’antropologia l’avarizia può provocare una dolorosa mancanza di beni materiale simile alla privazione del mangiare per un goloso ed è soprattutto il denaro a soddisfare quel bisogno di sicurezza che è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Dopo avere tentato diverse spiegazioni (sete di potenza, volontà di accedere ad una condizione di super-rispettabilità dovuta al volume del conto in banca, tentativo di sostituire con il denaro qualità o nobiltà umane di cui si sente di essere carente), gli antropologi hanno dimostrato che l’uomo tenta di fronteggiare la paura della morte con l’ossessione della fortuna economica ottenuta con un risparmio maniacale e con l’accumulo di beni materiali. L’avaro è afflitto da una “bulimia dell’anima” che lo porta a temere di non possedere abbastanza e che lo porta a tenere tutto per sé: ossessionato dal desiderio del possesso, l’avaro spinge i suoi desideri sempre al di là di quello che possiede a costo di essere sempre inquieto e ansioso, perché è tormentato dalla preoccupazione di perdere i beni che possiede e che finiscono per diventare un idolo da adorare.
Sotto il profilo sociologico l'avarizia è ritenuta dannosa per la società, poiché l’avaro ignora deliberatamente il benessere degli altri a esclusivo vantaggio del proprio interesse e difficilmente “socializza” con il gruppo sociale d’appartenenza e con la comunità dove vive. Attualmente nella cultura occidentale il termine "avarizia" vien usato sempre più raramente ed è sostituito con le parole “avidità” e “cupidigia”, impiegati per indicare un intenso desiderio di ricchezza, un desiderio di aumentare l'acquisizione di denaro o di altri beni materiali stabili o di consumo (cibo, abiti, terreni, appartamenti, automobili, ecc.), perché all’acquisizione di questi beni si dà un grande valore sociale capace di accrescere il proprio status e quindi il proprio potere o più semplicemente trova in questo possesso la principale ragione di vita.
La figura dell’avaro sta scomparendo dai nostri orizzonti sociali e letterari, perché viviamo in una società dominata dal consumo e dallo spreco. Fino a tutto l’Ottocento e parte del Novecento, larghi strati sociali vivevano nella povertà o addirittura nella miseria, per cui molti vivevano cercando di non morire di fame o di sopravvivere grazie a enti caritatevoli o istituzioni statali che garantivano un’sussistenza. Nelle classi superiori si attribuiva molta importanza alla ricchezza e quindi ai lasciti ereditari che causavano lunghe cause nei tribunali e faide familiari che si trascinavano per generazioni. L’avarizia è stata sostituita da un’altra pulsione strettamente imparentata con lei: l’avidità. L’avaro ha mutato pelle ed è diventato un avido; ha trasformato l’oggetto del suo amore: il denaro e le banconote si sono trasformati nei guadagni dalle speculazioni in Borsa e nella finanza selvaggia che ha affossato l’economia della globalizzazione, diffondendo il consumismo l’indebitamento per il possesso dei beni materiali. Il godimento massimo è veder aumentare di parecchi zeri il proprio conto in banca magari in uno dei tanti paradisi fiscali. La felicità è quella di Gordon Gekko, il protagonista del film Wall Street di Oliver Stone, un essere umano che manca di generosità, caratterizzato da un'aridità affettiva che lo porta a vivere in solitudine e senza sentimenti profondi: "L'avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l'avidità è giusta, l'avidità funziona, l'avidità chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo. L'avidità in tutte le sue forme: l'avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l'umanità."
A differenza dell'avaro, il quale tiene per sé tutto quello che possiede e non è disposto a cedere nulla agli altri, l’avido crea dei conflitti sul piano personale e sociale, perché cerca di arricchirsi sempre di più, con qualsiasi mezzo e spesso a danno degli altri.