Una tragica esperienza di vita vissuta da Campanacciani ed affini
Da “Una Vita in Sella” - Edizioni Pendragon 2020
Pier Roberto Dal Monte
Quando si frequentava l’Istituto di Patologia Medica diretto dal Nostro Maestro Professor Domenico Campanacci, si era formato un piccolo gruppo di ciclisti, di cui il nucleo resistente e costante era costituito da Enrico Fiore e da me stesso, iscritti al gruppo sportivo “Pedale Bolognese” , tuttora in attività.
Quasi ogni domenica durante la buona stagione, di norma, si faceva insieme ad un folto gruppo una pedalata nelle belle colline Bolognesi e purtroppo in una di queste vivemmo una tragica vicenda: l’incidente mortale in cui incorse uno degli iscritti al “Pedale” e a cui fummo presenti oltre a noi, occasionalmente anche i due dei figli di Allievi della Scuola, il figlio del compianto Professor Sante Tura, Stefano, e mio figlio Pier Paolo.
Episodio che apprendendo quasi giornalmente la morte di qualche ciclista, anche nel nostro territorio, ho rivissuto nel ricordo anche per la singolare circostanza che lo vissero con noi anche due giovani figli di Campanacciani. Episodio che ho ripreso in parte dal mio libretto di memorie ciclistiche e connessi, ‘Una Vita in Sella’.
“Il Signor G.C., il tragico protagonista della vicenda”, era un uomo piuttosto aitante, alto, già con un po' di pancetta, sui 45 anni, con un viso ampio ed una folta capigliatura riccioluta già un po' ingrigita, faceva parte del nostro gruppo collegato al Pedale Bolognese, ma non era particolarmente attivo o presente dati gli impegni lavorativi. Questa volta era con noi nel gruppone, un po' a parte con qualche suo più intimo amico ed io in verità non lo conoscevo.
Lo conosceva bene l’amico Enrico Fiore il quale, talvolta con lui nello stesso gruppo, era solito fare delle belle vacanze in bicicletta.
Quella domenica, come si è detto, occasionalmente e per la prima volta con noi si trovava mio figlio maggiore che, lo avevo convinto, poiché era passabilmente allenato, avendo io a disposizione due bici da corsa, a venire con noi facendo presente che c’era anche il figlio di Tura, il figlio del compianto Sante con cui, essendo circa la sua età, poteva solidarizzare. Non essendo ambedue troppo abituati ad andare in bici da corsa e soprattutto ad andare in gruppo, sia io che Enrico l’avevamo alquanto catechizzati sui pericoli di andare sulle strade comuni, e costretti a stare in gruppo e di non allontanarsi dalle mie o dalle sue ruote. Era anche un amorevole tentativo per stimolarli ad amare la bicicletta per la vita, per cui non è mai troppo tardi, ma è meglio affezionarcisi da giovane.
Quel giorno, che poi si dimostrò tragico, si era saliti, lasciando i dintorni di Casalecchio, verso la salita da Sasso Marconi a Mongardino; salita non facile ma che, malgrado battuti dai sempre allenati grimpeur o scalatori del gruppo, riuscimmo tutti a raggiungere sino alla vetta della sua collina, dove si riordinava il gruppo per la classica sosta presso la trattoria locale, a recupero delle calorie perse con qualche panino e per idratarci, pronti a discendere infine, ritornando questa volta per la strada di Calderino verso la Bazzanese.
Nella discesa tutto bene essendo in quel tratto quasi tutti di pari livello, salvo qualche spericolato discesista che ci precedeva e si riforma un bel gruppo più o meno in un’unica fila, sempre comunque piuttosto fastidioso per gli automobilisti impazienti, costretti a rallentare, benché i “capi” della Società ci inducessero ripetutamente a mantenere la corretta prudenza e stringersi per rispettare il codice stradale, e raggiungere la provinciale di pianura.
Si sa che nei gruppi di amatori compositi e di età diversa anche in pianura c’ è sempre qualcuno che scalpita e mal sopporta lasciarsi trascinare con gli altri a mo’ di gregge, ed in realtà in mezzo al gruppo il percorso può divenire un po' noioso, poiché oltretutto ti tocca sempre mantenere vigile l’attenzione per evitare le ruote degli altri che ti circondano. Gli impazienti, trovando terreno fertile nei loro sodali nei quali la lentezza non è nelle loro corde, quasi per un impulso personale fanno improvvisamente uno scatto, quelli immediatamente dietro li seguono, si da formare un primo gruppetto di fuggitivi; alcuni di quelli più indietro che non vogliono essere da meno incominciano anche loro a scalpitare a muoversi, ad accelerare e qualcuno parte all’inseguimento: alla fine si formano vari gruppi che cercano di ricongiungersi inseguendosi l’un l’altro. E va bene che questo si svolga solo in distacchi ordinati in strade tranquille e larghe, ma il male è che per far valere le proprie forze incominciano i sorpassi veloci con qualche trucco, anche su strade, le più comuni, dove coesiste il traffico normale e principalmente quello automobilistico.
Noi del gruppo dei mediamente forti, e con l’incarico di sorvegliare i due giovani figli non ci sentivamo particolarmente in grado di gareggiare quel giorno e ce ne stavamo abbastanza quieti pur aumentando la velocità, tirati dagli altri, sin dove il rettilineo lo permetteva; ma naturalmente non tutte le strade sono dritte e rettilinee, ci sono anche le pericolose curve più o meno cieche e va esercitata a propria salvaguardia una particolare prudenza accodandosi.
Ma non basta poiché, anche qualcuno di coloro che fanno parte dell’ultimo gruppetto e spesso anche chi invita alla prudenza, smania, e sotto l’imperio di qualche oscura sollecitazione scatta: vuole raggiungere i ‘fuggitivi’ e possibilmente mostrare la propria potenza di velocisti.
Non si sa perché ad un certo momento questo succeda, ma è lo spirito di competizione che si sveglia impulsivamente, imponendosi alla noiosa tranquillità e così, sollecitata dai sempre presenti corsaioli, scompare il fairplay e s’impone lo spirito di affermazione a cui fa eco, oltre che l’esibizione della potenza muscolare anche l’ebrezza della velocità.
Agli scatti improvvisi obbligatoriamente fa seguito l’allargarsi all’esterno del gruppo per allontanarsi dalla ruota degli impedenti ritardatari: dopo qualche istante anche il nostro G. C, apparentemente un uomo tranquillo e sino a quel punto vicino a noi, forse anche lui stanco di temporeggiare, scatta e vuole raggiungere i fuggitivi, lo vediamo assumere velocità e allargandosi, lanciarsi all’inseguimento, senonché poco dopo il rettilineo finisce, la strada si restringe e compare una curva piuttosto cieca e dalla quale in senso contrario, non vista, sta arrivando un’auto. Anche in lui lo spirito di competizione, l’ebrezza della velocità inconsciamente era scattata, oscurando la salutare paura della possibilità di uno scontro con qualsiasi ostacolo, la prudenza che poco prima il capo del gruppo ci aveva consigliato e che, pratico di quelle strade, bene conosceva il percorso e le sue insidie.
Un incosciente coraggioso spirito suicida purtroppo si materializzava con quella comparsa dell’auto, totalmente sulla sua carreggiata di destra e nel rispetto delle regole, insuperabile dal lato opposto.
Lo scontro con l’arto inferiore di sinistra tra ginocchio e tibia e il paraurti dell’auto diventa inevitabile e, sorvolando l’auto a causa della due velocità, il G.C. piomba a terra pochi metri da noi che stavamo sopraggiungendo; il tragico contatto con l’asfalto del suo capo, tra la fronte ed il volto, gli provoca la perdita di coscienza e rimane a terra emanando qualche raro e strozzato respiro con l’arto inferiore di sinistra innaturalmente fuori dal proprio asse.
Continuava ancora a respirare in maniera strozzata e disteso cautamente da noi, io ed Enrico, gli unici medici presenti, - ormai tranquillizzati dal fatto che non era successo nulla ai nostri pupilli che li avevamo un po' persi vista - rapidamente lo esaminammo: non era un colpo da sfondargli, in apparenza, il cranio che era pressoché intatto, ma nell’impatto più probabilmente non si era rotto il cranio, ma le vertebre cervicali e con esse il midollo spinale (il cosiddetto ‘osso del collo’) proprio a livello dei centri midollari che controllano i movimenti respiratori e cardiaci, poiché si stava verificando un rapido rallentamento del respiro associata ad un progressiva diminuzione sino ad arrestarsi del tutto dei i battiti cardiaci. Facciamo non convinti il massaggio cardiaco, tentando contemporaneamente di far riprendere, con un’ inefficace bocca a bocca, anche le funzioni respiratorie, ma il tutto risultò vano e così in pochi istanti si spense.
G.C. quell’omone, apparentemente placido e tranquillo, non troppo continuativo ed appassionato, quasi un ciclista per caso, che vedemmo scattare inopinatamente dal gruppo, era disteso morto sull’asfalto, senza mostrare di aver perso neppure una goccia di sangue.
Ce ne tornammo tutti a casa lentamente e silenziosi, dopo aver aspettato una lettiga che lo portò subito dal pronto soccorso dell’ospedale alla Medicina legale: impressionati dalla inedita scena e piuttosto angosciati per aver vissuto tutti noi una tragica esperienza.
Che non ci impedì ancora di riprendere i nostri giri con un po' di tristezza iniziale e con l’immagine ancora viva dell’innaturale, tragico volo consapevoli di mantenere una maggior prudenza (ma sino a quando?); ma questo certamente traumatizzò di più i ragazzi che avevano visto per la prima volta la vera morte, e da allora non li invitammo più alle nostre passeggiate, loro d’altra parte non sarebbero più venuti.
Pensando, come era apparso dai successivi commenti al fatto accaduto, che se gli adulti, e loro possibili genitori, erano così infantili da non rispettare le normali regole stradali, non c’era molto da imparare e seguirli nelle loro innocenti (ma anche tragiche) follie e poi non consideravano più quello sport, il ciclismo probabilmente indispensabile ad una vita attiva, avendo anche queste conseguenze.
Mio figlio ritornò gradualmente ad altri sport più tranquilli riprendendo più avanti la mountain bike, il figlio di Tura non mi risulta essere diventato un gran sportivo, essendosi allontanato e perso con grande successo professionale nelle nebbie Londinesi.
Il G.C. fu ricordato tra noi per qualche tempo stimolandoci per un po’ a non fare certe sciocchezze od esibizioni, che comunque non sempre salvaguardano, anche il più tranquillo ciclista, da qualche incidente più o meno serio, come ripetutamente potevo personalmente testimoniare.
Fu ricordato anche nella nostra Società, dove aveva anche qualche parente che la dirigeva e non si perdonava di averlo portato ad amare un po' sommessamente e non in maniera particolarmente accanita la bicicletta sportiva. Per questo fu istituito dal Pedale Bolognese un Criterium ciclistico a premio dedicata ai giovani talenti; gara che, dopo parecchie edizioni per problemi economici e l’impegno che comportava, fu abbandonata. In fondo non era un gran campione da essere ricordato o mitizzato dal pubblico sportivo che ama il ciclismo e poi, se vogliamo essere ingenerosi, aveva fatto un’azioni non molto commendevole e non era morto per diretta colpa altrui, un ‘odiato’ automobilista, il che avrebbe molto di più enfatizzato il tragico evento.