Alberto Pellegrino
Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814) è considerato il “principe della lussuria” ed è una delle personalità di spicco nel panorama cultura del Settecento europeo per le sue opere che rappresentano un cupo inferno all’interno del quale si agita una moltitudine di personaggi che vivono al di fuori di ogni regola morale. Sade propone un nuovo tipo di umanità libera da regole sociali e da freni morali, capace di mettere in mostra le sue passioni e di affermare la propria personalità attraverso una sfrenata e ragionata sregolatezza sessuale.
Nella sua visione della vita Sade propone un “vangelo del Male”, basato su una nuova morale sessuale, un Eros pubblico che nasce dall’inconscio collettivo e che produce miti fondarti su allucinazioni e crudeltà che affiorano dall’inconscio e che arriva ad indagare anche attraverso l’autoanalisi. Il rifiuto della morale corrente comporta un capovolgimento di valori universalmente accettati; prevede la pratica di riti terrificanti descritti con una fredda rappresentazione “scientifica” che emergono dal pozzo profondo e sconosciuto dell’animo umano. La sua dottrina, anche se manca di rigore, è caratterizzata da una dialettica “aperta”, antidogmatica e anti-schematica, legata a una visione manichea del Bene e del Male, che prevede sempre la vittoria dell’Essere della tenebre su l’Essere della luce.
L’eresia di Sade, oltre ad essere un sistematico strumento di profanazione e di denuncia, è anche un modello di vita fondato su un “disordine” fondato sul rifiuto di tutti i miti dell’ideologia borghese (famiglia, denaro, amore spirituale, religione), sulla esaltazione dell’Eros come arma di radicale sacrilegio e come strumento di rivoluzione permanente. “Sade nella situazione politica determinata dall’ascesa della borghesia, nonostante le generosità rivoluzionarie corrusche di ideali umanitari, ha individuato i germi che in meno di cento anni dovevano portare la nuova classe egemonica a svelarsi in tutta la sua cruda verità di guerre gigantesche, soprusi civili, oppressioni spietate, vittime innocenti, terrori, prepotenze, corruzioni, pregiudizi e sangue, sangue, sangue” (P. P. Brega).
La filosofia nel boudoir
Nel trattatello La filosofia nel boudoir (1795) egli narra le vicende didattico-erotiche di una fanciulla educata dalle teorie immorali dei suoi “istruttori”. Un padre libertino affida la sua bellissima figlia quindicenne, Eugénie de Mistival, alle cura della dissoluta signora de Sanit-Ange e del suo perfido fratello, il lussurioso cavaliere de Mirvel. A questa coppia si aggiunge Dolmancé, “l’uomo più corrotto e pericoloso che esista”. La pratica di ogni tipo di atto sessuale si alterna con la somministrazione all’educanda di principi di carattere metafisico, morale e politico che riguardano l’ateismo e la bestemmia, l’egoismo e la crudeltà, la pratica dell’assassinio e dell’incesto, l’adulterio e la sodomia. Questo percorso di formazione si conclude con la violenza sessuale che la giovane educanda compie sulla madre venuta a reclamare la liberazione della figlia da quella scuola di perversione.
All’interno di questa opera vi è un ampio inserto intitolato Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani, nel quale Sade critica la filosofia illuminista, propone di uccidere Dio dopo avere ucciso il Re, di varare un nuovo Codice che sanzioni la libertà di calunnia, il furto, l’omicidio, la prostituzione e l’adulterio, l’incesto, lo stupro, la sodomia. Nello stesso tempo egli mette in mostra una sua visione della società piena di contraddizioni: condanna la pena di morte ed esalta l’assassinio; considera l’uguaglianza un valore e difende i diritti naturali del più forte; si schiera a favore dell’emancipazione della donna e la considera una schiva dei desideri sessuali dell’uomo, un puro oggetto di piacere; riconosce il legame di sangue tra genitori e figli ed esalta la bellezza dell’incesto.
Sade sostiene il principio del rovesciamento, secondo il quale si devono sovvertire tutti i valori educativi e i principi morali tradizionali in modo che la Virtù sia punita e la Malvagità premiata, capovolgendo il Bene in Male, il Dolore in Piacere, fino a rovesciare gli impulsi naturali, che ci portano ad amare e a desiderare la Vita, per spingerci ad amare e idolatrare la Morte. Sade rifiuta pertanto la Ragionevolezza, il senso del Limite e della Misura, usando un linguaggio caratterizzato da una ossessiva ripetitività di tesi e situazioni, privo di pudori per dare libero sfogo a ogni genere di oscenità, a un esibizionismo degli organi e delle pratiche sessuali. Nonostante appartenga al Secolo dei Lumi, al contrario di Kant che vede nell’Illuminismo “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità”, Sade impegna la sua intelligenza e il suo sapere in una lotta continua e disperata contro la Ragione per esaltare il Corpo e la Trasgressione.
La trilogia di Justine e Juliette
Tra le molte opere scritte da Sade, nelle quali espone le sue idee sulla morale e sulla società, va considerata come una delle più rappresentative la trilogia Justine o le disavventure della virtù (1791), La nuova Justine, ovvero Le sciagure della virtù (1799), Storia di Juliette, ovvero La prosperità del vizio (1801). In questi romanzi Sade esalta l’ateismo che appartiene alla sfera della ragione; celebra l’anomalia, la perversione, la mostruosità come espressione della sfera dei sensi. Per Sade l’uomo è sottoposto al principio universale di asservimento al Male: non esiste la Virtù, non esiste la Bontà, ma esiste solo il Male, che non vuole essere altro che il Male: “Più l’uomo avrà dato prova di vizi e di misfatti in questo mondo, più si sarà avvicinato al suo invariabile fine che è la malvagità; di conseguenza avrà da soffrire, unendosi al focolaio della malvagità che io considero come la materia prima della composizione del mondo”.
Nel primo romanzo, che lo stesso autore definisce “mostruoso”, il “delirio di una immaginazione… sregolata, indecente…persino disgustosa, è la protagonista Justine a raccontare in prima persona le sue disgrazie, rimanendo fedele alla Virtù anche nelle situazioni più scabrose e crudeli fino al momento della tragica morte, che viene vissuta come quella di una martire cristiana.
Nel secondo romanzo la vicenda è esposta in modo oggettivo, perché è il narratore a proporre le avventure di Justine in modo più movimentato e scabroso con un linguaggio che diventa apertamente osceno, Le differenze tra i due romanzi si possono così riassumere: l’avaro De Harpen (protagonista del primo romanzo) viene sostituito dalla libertina signora Delmonse; le avventure, che accadevano nel castello di Bandole, sono trasferite in un convento dove sei monaci hanno a loro disposizione una specie di harem composto da venti fanciulle fra cui Justine e diciotto giovani. Dopo la fuga dal convento, Justine si rifugia in un albergo gestito da una sanguinaria coppia, i coniugi d’Esterval, dove è costretta a prostituirsi; successivamente la giovane fugge e finisce nel castello di Gernande per divenire oggetto di nuove e più violente orge. Uscita da questa esperienza, Justine viene derubata da una mendicante di nome Séraphine che la conduce in un sotterraneo, una specie di corte dei miracoli abitata da numerosi mendicanti, i quali costringono la giovane con la forza a praticare nuovi riti sessuali. Justine, continuando con le sue peregrinazioni, arriva a Lione, dove viene arrestata ma riesce ad evadere con la complicità di un carceriere e può incontrare la sorella Jiuliette.
Le due sorelle sono delle giovani ugualmente belle, le quali vivono una vita parallela e presentano un temperamento opposto. Justine rappresenta la morale cristiana praticata con ingenuità e purezza ma, secondo il principio del rovesciamento, è costretta a vivere in una società solo in apparenza cristiana, nella quale si viola ogni tipo di tabù, per cui la giovane diventa lo strumento e la vittima di ogni tipo di crimini e di turpitudini. Proprio la sua purezza d’animo provoca negli altri una violenta attrazione; spinge a pratica sempre nuove forme di perversione; finisce per farla cadere in balia del Male. Justine rappresenta l’abisso di miseria in cui può essere trascinata una creatura continuamente violata nella propria integrità morale, resa infelice dalla continua messa in crisi dei suoi principi morali (“Sempre in bilico tra vizio e virtù, bisogna dunque che la strada della felicità non si apra mai per me, se non concedendomi alla infamie!”); dal fatto di non accettare il potere assoluto del Male, la perversità che si annida nella sua natura, quel godimento che nasce dai patimenti e dagli eccessi sessuali che le sono inflitti dai suoi carnefici.
Juliette non è invece una vittima della propria virtù, perché si schiera dalla parte del Male e di quei mostruosi potenti che rappresentano le istituzioni, le quali vengono sfruttate per mettere in pratica le proprie perversioni. Per la giovane e per i suoi compagni il piacere della trasgressione diventa l’unica legge che scaturisce da una nuova morale praticata dalla Società degli Amici del Crimine. Juliette sceglie di praticare il Male come negazione di Dio e come affermazione di un ateismo integrale, basandosi su una morale dove l’unico precetto da seguire è la soddisfazione di ogni tipo di desiderio: “Fare ora, subito, a sangue freddo, le stesse cose che, fatte nell’ebrezza, hanno potuto causarci rimorso. In questo modo si colpisce fortemente la virtù quando essa ricompare, e questa abitudine a molestarla insistentemente proprio nell’istante in cui la calma dei sensi la spinge ad affacciarsi, è uno dei modi più sicuri per annientarla definitivamente”.
La trasgressione delle norme morali deve andare oltrepassare lo stesso godimento sessuale per sprigionare quella energia dell’anima che trova la propria soddisfazione nell’orrore e nella crudeltà: “Poche donne – dice Juliette – possono lusingarsi di avere goduto più deliziosamente la vita, e tuttavia desidero sempre; mi sento povera; i miei desideri sono mille volte superiori alle mie capacità; darei il doppio se potessi e non tralascerei nulla pur di aumentare la mia fortuna”. Questa confessione, che riflette una disparità tra il desiderio e la possibilità di soddisfarlo pienamente, rivela che la dottrina della trasgressione, praticata da Juliette, la rende prigioniera di una continua insoddisfazione e la spinge a lanciare questa terribile sfida: “Lo confesso, amo il crimine con furore, solo il crimine sa eccitare i miei sensi, e professerò sempre le sue massime sino all’ultimo istante della mia vita. Libera da ogni terrore religioso, al di sopra di tutte le leggi…quale potenza divina o umana potrebbe contrastare i miei desideri?”.