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I novant'anni del nostro Presidente, 3 - Il Maestro Domenico Campanacci e la sua Scuola

Il mio primo incontro con il Maestro avvenne in quest’aula esattamente sessantacinque anni fa, quando studente del quarto anno di medicina ero seduto  sui banchi  ad ascoltare la mia prima lezione di Patologia speciale medica. Il Professore, ricordo, entrò in aula seguito da una coorte nutrita di Allievi e da un paziente barellato che visitò sotto gli sguardi emozionati di tutti noi, al primo contatto con il malato. Ascoltò dapprima molto assorto la storia che lo aveva portato al ricovero, interrompendola di tanto in tanto per porre alcune domande e per commentare e ragionare con noi quanto udito; quindi con discrezione e rispetto, oggi diremmo della privacy di una persona, iniziò a visitarlo accuratamente, insegnandoci le manovre da eseguire, facendoci sentire il suono che si evocava alla percussione del torace; commentava i dati raccolti e sottolineava il significato che  potevano assumere nell’identificazione del problema essenziale che aveva modificato lo stato di salute del paziente; poi ragionando ad alta voce  formulava un’ipotesi di malattia, elencava gli accertamenti di laboratorio e le indagini strumentali  necessari per confermare o confutare la diagnosi posta e prevedeva con noi il destino della malattia dopo l’adeguata cura.

Avremmo capito più tardi che quel che stavamo apprendendo era il metodo clinico, il procedimento che avremmo dovuto osservare nella nostra futura pratica medica secondo un modello propugnato da un suo illustre predecessore, Augusto Murri firmano, clinico medico a Bologna dal 1876 al 1916, uno dei grandi uomini che hanno fatto “dotta” la città di Bologna: il suo metodo era induttivo nella prima parte in quanto prevedeva la raccolta minuziosa, accurata, dei dati utili per giungere alla diagnosi, per poi diventare “ipotetico deduttivo” quando si proseguiva con la ricerca delle prove che avrebbero confermato o escluso l’ipotesi di malattia.

Il Professore era uomo ricco di fascino, amato dai Familiari, dagli Allievi, dai giovani Studenti che ambivano ad entrare nella sua Scuola, dai Pazienti che si affidavano fiduciosi a lui come all’unico che avrebbe potuto risolvere il loro problema; ammirato dai Colleghi cui non potevano passare inosservate le sue grandi qualità; era amico della cultura, lettore insaziabile di libri, oratore brillante, elegante scrittore, amante dello sport all’aria aperta e della caccia. Nella sua missione di medico e di docente aveva sempre posto il malato al centro dei suoi interessi, il suo insegnamento era finalizzato a formare medici pratici vicini alla persona che aveva perduto la salute; ci ripeteva sempre che la ricerca scientifica doveva partire dal letto del malato  e i benefici dei suoi risultati ricadere su di lui.

E possedeva un’altra grande virtù, quella dell’umiltà.

Consapevole che era impossibile seguire in tutti gli ambiti della medicina l’incessante evolvere delle conoscenze e trasmetterle direttamente ai suoi Allievi, aveva voluto che ognuno di noi  completasse la propria formazione presso prestigiose istituzioni europee e d’oltre oceano. Ritornati alla grande casa, tutti ebbero l’opportunità di avere spazi e mezzi per applicare in loco quanto appreso, tutti poterono reclutare validi Collaboratori e costituire nell’ interno dell’Istituto le diverse équipes, ognuna dedicata ad una visione specialistica della medicina interna. Il nostro Istituto, per geniale intuizione del Maestro, si trasformò così in un vero Dipartimento di Medicina interna. Non posso qui non citare alcuni di noi che sono stati in Italia pionieri aprendo nuove strade per la formazione medica e l’assistenza in specifici campi. Il primo Aiuto Ugo Butturini che ritornò poi a Parma a riattivare il ramo campanaccino della Scuola; Bruno Magnani che aprì più ampi orizzonti alla Cardiologia; Giuseppe Gunella che insegnò a noi i principi dell’insufficienza respiratoria cronica  che ci hanno poi accompagnato per tanti anni nella nostra pratica medica e nel nostro insegnamento; Vittorio Bonomini che affrancò la Nefrologia dall’Urologia e Pieragnoli e Dal Monte, i nostri gastroenterologi, ed altri e soprattutto Sante Tura, un campanacciano vulcanico pieno di idee innovative e dell’energia e dell’entusiasmo necessari per realizzarle che, in comunanza di idee con Franco Mandelli suo grande amico ed alleato, conferì  all’Ematologia italiana dignità di disciplina  ed autonomia di cura e di ricerca. I Campanacciani erano ormai un albero dalle robuste radici.

In quell’epoca in Istituto – come diceva Sante Tura  si apprendeva per osmosi, per cui i saperi di uno si trasferivano ad altri costantemente permeabili a nuove conoscenze, i quali si formavano come veri internisti che avrebbero in seguito conservato e trasmesso la visione olistica della medicina. Testimonianza di questo straordinario modello di sinergia che fu la nostra Patologia medica sono stati alla fine degli anni ‘50 il Trattato di Patologia medica,  strumento di apprendimento di più generazioni di studenti, nella massima parte scritto da Campanacciani, e nel 1961 la relazione al congresso nazionale di Medicina interna  nel quale furono presentate la fisiopatologia e la clinica dell’enfisema polmonare messe a fuoco, ognuno per la propria parte, dai Responsabili delle diverse équipes che costituivano l’Istituto.

Alla fine del ’68 il Maestro lasciò per limiti di età l’insegnamento accademico, la titolarità di cattedra, prima di Semeiotica poi di Patologia medica e la direzione dell’Istituto che passarono a Bruno Magnani, un altro uomo eccezionale per onestà culturale, rigore metodologico e coerenza con se stesso. Bruno Magnani continuò in Patologia medica l’insegnamento del Maestro per alcuni anni prima di passare alla cattedra di Cardiologia, anche questo se vogliamo un atto di coerenza, ed all’edificazione, con l’aiuto di prestigiosi Collaboratori, di un Istituto cardiologico di rilevanza quanto meno nazionale. La Cattedra di Medicina interna fu poi per diversi anni nelle mani esperte di Ettore Ambrosioni e successivamente  in quelle di Claudio Borghi, che oggi rappresenta la continuità campanacciana nella Scuola bolognese di medicina. Molti di noi intrapresero altri cammini, alcuni lo avevano fatto prima, altri lo avrebbero fatto dopo sia nella stessa Bologna sia in altre sedi. Ci distribuimmo da Biella, da Trieste e da Udine sino a Lecce, attraverso la Toscana, l’Emilia, la Romagna, gli Abruzzi, ricoprendo ruoli apicali nella medicina interna universitaria ed ospedaliera, ed ovunque applicando quel che il Maestro ci aveva dato e trasmettendolo, a nostra volta, ad altri.

Continuammo però periodicamente ad incontrarci, come sempre avevamo fatto, più spesso intorno ad una tavola ben imbandita; il grande tavolo era ad U, il Maestro sedeva al centro, noi tutt’intorno ad ascoltarlo, Lui alla fine della cena iniziava a parlare e distribuiva saggezza. Ci insegnava ad amare i  pazienti e ad esercitare  l’arte dell’ascolto, raccomandava l’anamnesi come strumento insostituibile di diagnosi e l’esame fisico che caratterizzava la relazione medico-paziente, sottolineava l’importanza del rapporto con i Colleghi e con i Parenti. Ci indicava come virtù l’umiltà, la prudenza, la tolleranza, la sobrietà del vivere, Lui che non beveva alcolici né fumava, la sera andava a letto presto ed al mattino, anche prima delle sette, poteva giungere in Istituto per fare la visita, svegliando il malcapitato medico di guardia quella notte.

Poi nell’86 il Maestro ci lasciò, ma i nostri incontri proseguirono regolarmente sino a quando, giusto un anno fa, decidemmo di riunirci in Associazione; abbiamo scritto lo Statuto, eletto Presidente Sante Tura, che ha conservato mirabilmente la capacità di vedere quello che altri non vedono e di trasmettere energia ed entusiasmo a chi gli sta intorno; sotto la sua guida abbiamo creato una rivista per ora quadrimestrale, Medicina e Cultura, e ne abbiamo affidato la direzione a Claudio Borghi, che si è dimostrato Editor straordinario; abbiamo scritto il quinto volume di una Antologia campanacciana, dedicato al ramo nefrologico della Scuola, mentre i primi tre furono rivolti alla Scuola d’origine ed il quarto al ramo marchigiano; abbiamo attivato un sito web (www.icampanacciani.it ), nel quale sono ospitati da due mesi un Corso di aggiornamento tutto campanacciano riservato alla presentazione ogni settimana di Casi clinici esemplificativi e la rubrica Controversie in medicina a cura di Sergio Coccheri; abbiamo  aperto, sempre su suggerimento del Presidente, la categoria dei Soci aggregati per quelle Personalità della cultura desiderose di vivere con noi la vicenda campanacciana; abbiamo conservato la gioia di ritrovarci, mentre Claudio Borghi, presidente della Società medico chirurgica di Bologna, ha istituito il Premio di laurea D. Campanacci, B. Magnani  per le dieci migliori tesi su argomento internistico e cardiologico di neo-laureati dell’Alma Mater.

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Oggi molti di noi per limiti d’età hanno lasciato le posizioni apicali che occupavano, ma hanno assicurato continuatori, internisti o specialisti, che seguono il metodo murriano e mantengono la visione olistica della persona malata.

ed

 

Concludo con la cara e buona immagine paterna del nostro Maestro e con una frase che lui ebbe a rivolgere alla fine degli anni ’40 ai suoi Studenti di Patologia medica nell’Università di Parma ancora turbati dagli orrori della guerra da poco terminata.

Noi dobbiamo guardare innanzi ed in alto, lasciando che il nostro lavoro sia illuminato dalle universali eterne verità del cuore, ancora e sempre racchiuse nei sentimenti di fede e di onore, di pietà e di dovere, di sacrificio e di amore.

Ricordando Antoine de Saint Exupéry: On ne voit bien qu'avec le coeur, l'essentiel est invisible pour les yeux.

 

Giovanni Danieli