Luigi Agnati
Il tema affrontato sviluppa una considerazione di Guido Ceronetti (Il silenzio del corpo 1979): “La Medicina, tradizionalmente, è una disciplina filosofica, che si può studiare come si vuole, anche frequentando le facoltà mediche. La verità è sempre terapeutica, magistralmente chirurgica, splendidamente filantropica: faccio il medico cercandola, e i limiti di chi cerca la verità sono gli stessi del medico che pratica la Medicina ordinaria”. In poche righe Ceronetti indica il compito del medico e di ogni uomo che riflette sul suo essere nel mondo. Come si illustrerà brevemente, vi è un dato di biomedicina di sorprendente rilevanza che rende ancora più problematica questa fondamentale ricerca: l’esistenza di un complesso di microorganismi (il microbiota) che l’uomo alberga e che ne condiziona lo stato psico-fisico e quindi le sue interazioni con l’ecosistema nel quale è immerso.
Premessa
Arduo compito è quello che adempie il “Medico” specie se lo associa a quello di docente e ricercatore. In realtà, inevitabilmente, come già affermato da Ippocrate, i tre compiti procedono insieme anche se il medico non opera in ambito universitario e quindi non è istituzionalmente chiamato ad insegnare.
Infatti, è da sottolineare che l’attività del medico ha come fine primario il benessere psico-fisico del singolo e a tal fine deve aiutarlo a far sì che il suo interagire con gli altri uomini e con l’ambiente sia corretto poiché solo così l’uomo può aspirare a raggiunge la “eudemonia”, cioè “l’accordo di sé con sé” (G. Reale Socrate: la scoperta dell'essenza dell'uomo 2001) e vivere in una società che abbia compiutamente cura della Unità di Sopravvivenza Uomo & Ambiente".
Questa premessa sottolinea come la Medicina sia téchne cioè "arte" nel senso di "perizia e di saper operare" e quindi un insieme di abilità da applicare in un'attività intellettuale e sovente manuale; ma la Medicina è anche un ambito nel quale sviluppare gli strumenti culturali ed operazionali per affrontare il tema cruciale del posto dell’uomo nel mondo nel quale vive e a tal fine cooperi con le altre attività dell’uomo nel tentativo, sinora vano, di creare quella società utopica alla quale da millenni la nostra specie aspira.
Anticipo che, a mio avviso, i progressi della Medicina ci portano sempre più a comprendere che il tema proposto, nella sua completezza, è al di là delle nostre capacità; al contempo, però, questi stessi progressi ci suggeriscono che se questa consapevolezza sarà sufficientemente meditata, indurrà la nostra specie alla appropriata cura della “Unità di Sopravvivenza Uomo & Ambiente” nella sua interezza, aspetto cruciale per la sua sopravvivenza.
Ho avuto Amici e Maestri che mi hanno indicato il cammino da percorrere come medico e come docente. Quando menziono “Maestri” intendo non solo Colleghi che ho incontrato nel mio percorso, ma anche grandi Autori con i quali ho dialogato attraverso le loro opere e che mi hanno aiutato a pormi le domande fondamentali sulla meta del cammino che mi accingevo a compiere.
Inizierei, quindi, citando Marco Aurelio (I miei ricordi) che ringrazia congiunti e precettori per l’esempio e l’insegnamento che gli è stato dato, dettami che hanno ed avranno per sempre importanza. Ne citiamo solo quattro di questi che ancor oggi ci fanno riflettere:
• La sopportazione della fatica e il contentarsi di poco;
• Il non prestare orecchio alle calunnie;
• La consapevolezza che ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza;
• La consapevolezza che il vivere è un’arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che ci arrivano imprevisti.
Dettami che – se fossero osservati – censurerebbero molti dei comportamenti e modi di sentire riprovevoli che spesso si osservano nella società attuale. Al proposito, è da notare che si è persino perso il significato che aggettivi quale “cortese” e “gentile” avevano presso l’Italiano colto durante l'Umanesimo e il Rinascimento. Questi termini indicavano attitudini dell'anima che erano a fondamento di quelle scelte cruciali che sfociavano nel rispetto della dignità propria e altrui e che sono essenziali affinché si attuino pienamente le più elevate manifestazioni della convivenza fra persone.
Nella trascuratezza della nostra cultura verso tali valori risiede, almeno in parte, la ragione della solitudine tanto profonda che oggi ci avvolge.
Rileggendo dal Decamerone le novelle di Federigo degli Alberighi, del marito di madonna Dianora e del saggio Natan, si delineano visioni della vita che sarebbe auspicabile non esistessero unicamente in quegli straordinari racconti ma che nutrissero, attraverso un’educazione culturale adeguata, l’adolescenza dei giovani perché possano affrontare con profonda consapevolezza e “cortesia” la loro maturità e alberghino in loro illusioni che illuminino il loro mondo interiore e i loro rapporti sociali. Poiché, come ha scritto Leopardi (G. Leopardi Zibaldone):
“Pare un assurdo, e pure è esattamente vero, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni”.
Forse, la più fondamentale delle illusioni è la certezza che ha ciascuno di noi dell’esistenza del suo “io” anche se, specie un medico, ha presente la aporia del “Mind/Brain Problem” che Pessoa così esplicita:
“Non posso stabilire un rapporto nitido fra una massa visibile di materia grigia e questa cosa – l’io – che da dietro il mio sguardo vede i cieli e li pensa, e immagina cieli che non esistono” (F. Pessoa Il libro dell’inquietudine).
Il rapporto fra la massa visibile di materia grigia e l’invisibile “io”, come ora si dirà, è un rapporto che sembra sempre più complicarsi con il procedere della ricerca in campo biomedico, la quale ha dimostrato come cellule non-umane (il microbiota) presenti nel soma dell’uomo ne influenzino lo stato psico-fisico ed è sulla base di questa evidenza che Gibbson (SM. Gibbons mSystems 2019) ha definito l’uomo un “ecosistema che cammina”.
L’uomo come “ecosistema che cammina”
Il nostro gruppo ha recentemente discusso questo aspetto e pubblicato un articolo (Guidolin D. et al. A New Integrative Theory of Brain-Body-Ecosystem Medicine: From the Hippocratic Holistic View of Medicine to Our Modern Society Int. J. Environ. Res. Public Health 2019) dove si riportano dati sulla presenza di un complesso di microorganismi che l’uomo alberga e che ne condiziona marcatamente le funzioni psico-fisiche e quindi le interazioni con l’ecosistema con il quale interagisce (per ulteriori approfondimenti: L. Liu Frontiers in Psychiatry 2018).
I dati principali sono riportati nelle Figure 1., 2., 3. e per una esplicitazione e discussione degli stessi si rimanda agli articoli citati. In questa breve presentazione si vuole solo sottolineare che queste evidenze sperimentali hanno una profonda influenza non solo sulla téchne medica, ma anche sulle considerazioni che si impongono nell’esaminare il posto dell’uomo nel mondo.
È, infatti, da chiedersi (Fig. 4) se il microbiota, che ci pervade e numericamente sovrasta il numero di cellule del nostro soma condizionandone funzioni fondamentali, sia indice che ciascun uomo non è un “io” ma un eterogeneo “noi”, oppure tale evidenza sia una flebile voce che ci suggerisce che il nostro “io” risiede in una entità che è al di sopra dell’uomo seppure il suo soma sia obiettivamente un disparato e sovente disperato “ecosistema che cammina”?
Per quanto riguarda il primo aspetto si è proposto un approccio al Paziente che abbiamo definito come “Brain-Body-Ecosystem Medicine” e che è sinteticamente illustrato nella Fig. 3; per quanto concerne il secondo aspetto c’è da chiedersi in quale misura il microbiota, specie quello intestinale, interferisca e moduli lo stato psichico del soggetto, in particolare il “colloquio interiore” che come afferma Socrate è componente essenziale dell’eudemonia alla quale ciascun uomo aspira (G. Reale Socrate: la scoperta dell'essenza dell'uomo 2001).
Nella Apologia ai suoi concittadini Socrate afferma: “… mi udivate conversare ed esaminare me stesso ed anche altri: ma la vita senza questa cura nell’esaminare sé stessi e incapace di trarre giovamento dal conversare con altri su temi che non riguardano beni materiali, è indegna di uomo” (Platone Apologia di Socrate).
Il medico, e in genere l’uomo, deve essere conscio che questo interrogarsi è compito doveroso poiché è lo studio che offre “la possibilità di scoprire sé stessi, scoprire la nostra stessa realtà (per noi, non per gli altri), quella realtà che nessun altro uomo può conoscere. Gli altri, infatti, possono vedere solo le apparenze esterne, ma non possono mai dire quel che esse realmente significano” (J. Conrad Cuore di tenebra). Pensiero affermato anche dalla Yourcenar che scrive: “Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza umana: lo studio di sé stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi si adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono fra le righe” (M. Yourcenar Memorie di Adriano). Lo studio di sé stessi, degli uomini e dei grandi autori sono quindi un percorso arduo ed accidentato ma sono lo specchio del nostro modo di essere nel mondo e di interloquire con noi stessi.
Il cammino dell’Uomo
A quanto sinora esposto fa eco una famosa affermazione di Goethe “Die Kunst ist lang, und kurz ist unser Leben” (JW. Goethe Faust) e quindi si deve essere coscienti che ci sarà concesso di percorrere solo un tratto assai limitato dell’infinito cammino dell’arte che si è scelta o “che ci ha scelto”. Questo compito faticoso è, però, parte saliente del colloquio con sé stessi: solo attraverso esso si guadagna l’accesso a quella sorgente che sgorga dalle profondità dell’Io e si acquisisce la piena consapevolezza che “non è possibile dissetarsi se non di quello che scaturisce dalla nostra anima” (JW. Goethe Faust).
La consapevolezza che ha il medico sui progressi della sua “arte”, che ha comunque portato a risultati obiettivamente salienti, non deve far dimenticare le colpe e le deficienze dell’organizzazione medico-sociale. I medici, come tutti gli altri uomini, dovrebbero riconoscere che se c’è stato progresso dell’umanità (Leopardi giustamente se lo chiedeva) è avvenuto per opera di quei pochi per i quali si può dire: “questi non ciberà terra né peltro/ ma sapienza, amore e virtute” (Dante Divina Commedia). Perché costoro, alfieri di una umanità conscia dei valori che qualificano l’uomo come tale, siano sempre più numerosi si dovrebbe investire nell’istruzione (non solo “digitale”) così da fare acquisire alle nuove generazioni quella cultura che favorisce il comportamento etico e capacità cognitive anche nell’età avanzata. Il medico deve aver presente che dati epidemiologici hanno dimostrato che la cultura ha anche implicazioni sulla senescenza cerebrale: si è, infatti, riscontrato che l’uomo colto tende ad avere quella “riserva funzionale cerebrale” che non solo è di sostanziale importanza nell’età avanzata, ma assicura anche, per esprimersi con i termini del sociologo Max Weber (1864-1920), che la nostra società abbia dovizia di uomini adulti capaci di “ascesi intramondana” (capitalisti seri e burocrati capaci) ed “ascesi extramondana” (religiosi consci del loro ministero).
Cultura, dunque, e non semplicemente progresso tecnologico poiché lo sfruttamento cieco, e quindi non accompagnato da una visione etica, di conoscenze tecnologiche può produrre disastri (vedi Fig. 1) e, come già denunciava Konrad Lorenz (Gli otto peccati capitali della nostra civiltà 1973), le azioni inconsulte dell’uomo possono causare la sesta estinzione.
Al proposito, con una speranza che non sia una visione preconizzatrice, leggiamo dal Manfred di George Byron:
Sapere è patire. Sventura
è la scienza. Coloro che più sanno
più amaramente devono
piangere il vero fato:
l’albero della scienza non fu mai
l’albero della vita.
Di questi versi, che richiamano il Qohélet, mi hanno colpito gli ultimi due per le tante letture possibili che possono avere e per le domande che pongono, in particolare al medico. Così ci si chiede a quale “scienza” e a quale “vita” essi si riferiscano poiché non devono essere intesi solo come cieco sviluppo economico ed assurdo procrastinare della dipartita. Il primo aspetto può arrecare danni irreparabili all’ecosistema nel suo complesso, il secondo aspetto dà un valore assoluto al tempo che per l’uomo ha valore solo nella piena padronanza della sua autocoscienza e quindi nell’accettazione dell’esito finale del suo destino biologico.
La triste consapevolezza della transitorietà dell’“io” è stemperata dall’arte, soprattutto dalla musica per i particolari legami che questa ha con il tempo e quindi con una visione prospettica ed eroica della vita. Scrive la Yourcenar (M. Yourcenar Alexis): “la musica non è indiscreta e, quando si lamenta, non dice il perché. … ho sempre pensato che la musica dovrebbe essere solo silenzio, il mistero del silenzio che cerca di esprimersi”.
La musica che commuove è, dunque, un susseguirsi nel tempo di silenzi. È così che dà la consapevolezza del tempo che ci consuma e del destino biologico che sgretola l’“io”. Infatti, la musica sempre, anche quando (come talvolta in Beethoven) sembra che, ribellandosi, riesca a frantumare i vincoli del tempo che ci stringono, in realtà allude al grande silenzio nel quale culmina, annichilendosi, il nostro destino biologico.
Il tempo è, dunque, lo scorrere del fiume che conduce alla morte anche chi amiamo e per il nostro essere nel mondo sono essenziali ed allora “via via che scompaiono coloro che abbiamo amato, diminuiscono le ragioni di conquistare una felicità che non possiamo più condividere” (M. Yourcenar Alexis).
La sofferenza del sopravvissuto che non dimentica è una musica che ha esperienza di nuovi silenzi, totali e insondabili. Questa è la lamentosa sinfonia della vita priva di perché.
E dunque “quanto più si prolungherà la tua vita, tanto più vedrai che il mondo è come una grande ombra che passa dentro il nostro cuore, per questo il mondo diventa vuoto e il cuore non resiste” (J. Saramago Memoriale del convento).
Il medico, docente, ricercatore deve saper affrontare questa realtà per sé e per quanti avrà a sé vicino non solo come Pazienti ma come compagni di questo viaggio pur sapendo che “La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (F. Pessoa Una sola moltitudine).
Luigi Agnati è Professore emerito di Fisiologia presso l’Università di Modena Reggio Emilia. Tra i numerosi premi e riconoscimenti internazionali ricevuti, nel 1993 la Laurea honoris causa in Medicina e Chirurgia da parte del Karolinska Institutet di Stoccolma, nel 1994 il Nobel fellowship per 18 mesi, nel 1998 il Premio Golgi per le Neuroscienze e molti altri. E’ Autore di 646 articoli scientifici, tra questi due in collaborazione con il premio Nobel Paul Greengard, e di nove volumi su diversi aspetti della fisiologia,. È dal primo gennaio Socio aggregato della nostra Associazione.