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Augusto Murri e il metodo clinico

Giovanni Danieli

Augusto Murri (fig.1) fu uno dei più grandi Clinici medici d’Europa a cavallo tra i secoli 
XIX e XX. Era medico e filosofo insieme, portato quindi al ragionamento, al pensiero logico, alla critica dei dati. 

fgEra nato a Fermo il 7 febbraio 1841. Ebbe un’infanzia difficile. Erano gli anni in cui nel nostro Paese aleggiavano aneliti di libertà e spirito di indipendenza nei confronti del dominio austriaco e di quello ecclesiastico. Il padre era un giureconsulto, mazziniano convinto e deputato della Repubblica romana sino alla sua caduta nel 1849. Murri aveva otto anni quando gli austriaci irruppero nella sua casa per perquisirla e portare via il padre, che venne poi esiliato a Cipro; il ricordo di questa esperienza e la ribellione contro i soprusi non l’avrebbero più abbandonato. 
Studente in Medicina, a soli ventitré anni conquistò (1864) una brillante laurea a Camerino. Perfezionò la sua preparazione frequentando per due anni a Parigi le lezioni di Bazin, Fournier, Trousseau e a Berlino, grazie ad una borsa di studio, le cliniche dirette da Traube e da Frerichs. Al ritorno in patria, persistendo le cattive condizioni economiche della famiglia, scelse la strada della condotta e fu prima medico interino a S. Severino Marche e Cupramarittima, poi titolare a Fabriano. Si trasferì quindi a Civitavecchia per essere più vicino alla sede universitaria di Roma. In condotta non aveva trascurato lo studio e la ricerca clinica, ed è di quell’epoca un saggio importante sull’itterizia grave che, pubblicato su Lo Sperimentale, attirò l’attenzione di Guido Baccelli, clinico medico nell’Università di Roma, che lo volle a Roma quale Assistente in Clinica medica; qui si fermò per cinque anni fino al 1876 quando, per i grandi meriti acquisiti sul campo e per la fama che si era conquistata, venne dalla Facoltà medica di Bologna chiamato a ricoprire la cattedra di Clinica medica che ricoprì per quarant’anni facendo di Bologna un polo di Alta formazione medica nel panorama culturale italiano. A testimonianza di questo glorioso periodo la Clinica medica di Bologna (fig.2) è un imponente edificio, simile ad un tempio dorico, con il suo pronao, il colonnato, il frontone dentellato con il timpano, un vero sacrario della medicina.   

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Augusto Murri fu soprattutto un grande Clinico, propugnatore di quel metodo clinico che è alla base della relazione medico-paziente.Il metodo da lui seguito fu per molti anni di tipo induttivo (dalla raccolta meticolosa dei dati all’ipotesi diagnostica).

Il Medico incontrava il paziente partendo dal particolare, dai fatti che vanno osservati con estrema attenzione, con critica e con obiettività, nudi e crudi con mente sgombra da pregiudizi, come tabula rasa, come lastra fotografica sulla quale si imprimono i segnali provenienti dai fatti osservati.

L’insieme delle informazioni così raccolte lo portava (induceva) a definire la diagnosi. Ben presto però Murri si rese conto del tempo che questo  procedimento richiedeva e si orientò verso il metodo deduttivo (dall’ipotesi alla raccolta dei dati), la cui peculiarità consisteva nella formulazione precoce di una ipotesi diagnostica e nella successiva verifica della stessa, ricorrendo agli accertamenti forniti dal laboratorio e compiuti con i pochi strumenti che la scienza in quei tempi offriva. Ha lasciato scritto: Noi facciamo quello che tutti gli uomini, consapevoli o inconsapevoli, fanno: concepiamo una ipotesi e la mettiamo alla prova ricercando i fatti che le spetterebbero; quindi ricerchiamo quelli in ispecie, non tutti in genere. Se non troviamo quelli, ci accorgiamo che l’ipotesi non è giusta e la abbandoniamo; e allora ne facciamo una seconda, una terza, un’altra, finché non troviamo quella con la quale i fatti stanno pienamente d’accordo. Il cammino è senza confronto più breve.

Il metodo ipotetico deduttivo è quindi segnato da tappe obbligate che si susseguono senza salti logici: individuazione dei problemi di salute del paziente; proposta di soluzione attraverso ipotesi diagnostiche; verifica (corroborazione o falsificazione) delle ipotesi tramite gli accertamenti.

La formulazione delle ipotesi è il momento fondamentale dell’atto medico. Scriveva a questo proposito Murri: cerchiamo di immaginare ancora. Chi non sa fare ipotesi non sa cercare la verità; più se ne immaginano e meno si corre il rischio di lasciare inconsiderata l’ipotesi giusta. Non si può in altri termini concepire la dimostrazione di un cosa che non sia stata prima immaginata ed il bravo medico è quello che ha più fantasia, più creatività nell’individuare il maggior numero di ipotesi plausibili.

Il metodo clinico deriva direttamente da quello sperimentale, caratterizzato com’è anch’esso dalle tappe di osservazione di un fenomeno, formulazione di ipotesi, sottomissione delle stesse all’esperimento, elaborazione dei dati e, se i risultati corroborano l’ipotesi, formulazione di una teoria scientifica. Schematicamente il metodo clinico ripete le tappe del metodo sperimentale. Quest’analogia tra metodo scientifico e metodo clinico è riportata nella figura seguente (fig.3).

 

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Nella figura il braccio destro riguarda il metodo clinico, il braccio sinistro quello sperimentale. 

Questa è la strada irrinunziabile del medico nel suo rapporto con il paziente, che sarà potenziata da quello che la moderna tecnologia apporta, ma mai rinunciata. La medicina quindi è una prassi basata sul metodo scientifico. 

Augusto Murri fu un grande diagnosta, chiamato in ogni parte d’Italia a risolvere casi intricati. Hanno chiamato Murri!  si diceva per indicare un caso disperato. Amava la sua professione, amava i pazienti; ha lasciato scritto: Medico vero non è chi non sente imperioso l’amore per il paziente.

Non era un uomo venale, ma scrupoloso e preciso nel chiedere il suo compenso. Chiamato a consulto a Lecce, giustificava così la sua parcella “Così io viaggerei ventiquattro ore per venire e quasi ventiquattro per tornare, passerei la giornata intera per il consulto e starei due notti in treno, cioè, in conclusione, tre giornate di tempo e d’affaticamento. Mi pare che 1000 lire ogni 24 ore ci vorrebbero”, così scriveva al Primario medico di Lecce, che l’aveva chiamato a consulto nel settembre 1909. E, meticoloso com’era, pianificava il consulto sin nei minimi particolari: “A me pare che converrebbe meglio partire di qui alle 10,25 e arrivare a Lecce alle 6,30 della mattina dopo. Io sopporto bene il non coricarmi in un letto, anzi preferisco un vagone ad un letto incerto. Ma quanto a Lecce avrei bisogno di due ore di toilette in un hotel dove potessi fare il comodo mio, perché ho necessità fisiologiche ineluttabili. Dopo sto bene fino alla mattina appresso e posso viaggiare senza coricarmi neppure la notte seguente e senza grave disagio. Tutto, dunque, potrebbe aggiustarsi, se alle 8,30 ci fosse un’automobile a Lecce. Allora andremmo dove lei vorrà...”


Augusto Murri fu anche un uomo politico. L’esperienza in condotta l’aveva reso consapevole e partecipe dei dolori e delle miserie umane. Aveva scritto: “Quando uno di noi con questo sentimento nell’animo è condannato per tutta la vita a contemplare, impotente, di quante calamità gli ordinamenti sociali e politici sono fecondi per tanti sventurati, egli diventa nemico di questo che pomposamente si suole chiamare ordine”. Ed ancora: “Il Medico, fidando nelle evoluzioni benigne, chiede rimedi morali, invoca giustizia sociale, anela ad un ordine meno mendace, lo spirito paterno mazziniano parlava in lui”.

Coerentemente con queste idee, si impegnò nella vita politica, da lui intesa come via da percorrere per affermare i propri principi. Entrò nel 1895 nell’amministrazione del Comune di Bologna; alfiere di una democrazia sociale, laico, radicale, di estrema sinistra, fu definito “un borghese più socialista degli operai”, si schierò nelle file dell’opposizione battendosi tra l’altro, con l’appoggio di due colleghi di facoltà, Pietro Albertoni ed Augusto Righi, contro l’insegnamento della religione nelle scuole, ma senza successo alcuno. 

Nella mozione era scritto: la scienza moderna ha posto in sodo che tutte le religioni che si sono succedute hanno tutte un fondo morale comune che varia solo e lentamente per mutazione di luoghi e di tempi. 

Questa morale umana si deve soltanto insegnare nelle scuole perché è comune a tutti e perché è debito di uno stato di far buoni i cittadini. Ma insegnare religione lo Stato non deve, perché è ufficio delle famiglie che lo vogliono: lo Stato non dev’essere ne’ ateo ne’ teista, ma avere il massimo rispetto per tutte le coscienze.  

 

La sua vita fu sconvolta da un terribile evento

Era il 28 agosto 1902 quando il figlio Tullio, ventiduenne avvocato, uccise con tredici coltellate il cognato Conte Bonmartini; sullo sfondo, un torbida storia di amori e tradimenti, che aveva avuto per protagonisti i due figli del Maestro, Tullio che verrà condannato a ventisette anni, e Teodolinda, l’adorata Linda, condannata a cinque, ma restituita dopo due alla libertà per grazia regale.

Questo efferato delitto, che rivolse contro di lui l’opinione pubblica mobilitata anche dalla stampa cattolica, distrusse Murri, indicato come colpevole di aver impartito ai figli, in quanto laico e socialista, un’educazione liberale priva dei freni morali. Lasciò Bologna e si rifugiò a Rapallo, ove visse in piena solitudine per trenta mesi, fino al momento in cui (1905), sollecitato da Amici e Studenti, ritornò a Bologna e riprese, con rinnovato entusiasmo, il suo magistrale insegnamento. Restò ad illuminare la Clinica medica di Bologna, fedele sempre a quell’empirismo razionale che aveva costantemente professato, sino al 1916 anno della sua naturale quiescenza.

Si spense novantunenne a Bologna il 10 novembre 1932 nella sua villa all’inizio di via Toscana, appena fuori Porta S. Stefano. Oggi riposa nel cimitero di Fermo, che il corteo funebre raggiunse scortato dal gonfalone della città di Bologna.

Voglio concludere ricordando Georges Bernanos e la sua opera Il diario di un curato di campagna nel quale racconta la storia di un parroco che tra i suoi compiti aveva quello di assistere chi viveva i suoi ultimi giorni in carcere attendendo la pena capitale, a tutti portava il conforto della fede, della speranza, della fiducia, dell’accettazione. Scriveva Bernanos “è meraviglioso poter dare quello che non si ha, è il miracolo delle nostre mani vuote”. 

Ai giovani medici che mi hanno seguito vorrei dire: nella vostra pratica quotidiana date in ogni occasione a piene mani, ricordatevi che le vostre mani sono miracolose e che possono dare sempre, sempre, anche quando sono apparentemente vuote.

Conferenza tenuta a Colli del Tronto (AP) il 17 settembre 2021 al Secondo convegno di Medicina interna della Riviera e del Territorio piceno, promosso dal dott. Pierangelo Santori.